Cresce il lavoro povero e il governo non fa nulla

Il lavoro povero in Italia è cronico e in crescita, ma il governo si volta dall’altra parte, invece che attivare azioni concrete in favore di chi fatica ad arrivare a fine mese pur avendo uno stipendio preferisce la “retorica dell’occupabilità”, pretesto per togliere il reddito di cittadinanza a persone che molto difficilmente saranno in grado di trovare un posto.

L’aumento degli occupati vantato in coro da molti esponenti dell’esecutivo va preso con le pinze: quasi sempre va di pari passo con un incremento di quota di posti a bassa retribuzione ,infatti il 24,5% dei lavoratori dipendenti e addirittura il 60,3% di quelli part-time risulta a rischio povertà.

La situazione va sempre peggio, il forte aumento del lavoro povero registrato tra 1990 e 2018 è stato determinato dalla crescita del part time, perché la quota di dipendenti full time che guadagna meno del 60% del reddito mediano è rimasta stabile.

Il problema delle basse retribuzioni è legato, soprattutto, alla proliferazione dei contratti atipici e a tempo parziale, che oggi coinvolgono oltre il 30% degli occupati (50% tra le donne), non si può escludere che c’entri anche un aumento del grigio, cioè il pagamento “in chiaro” di un numero di ore inferiore a quello effettivo, privando i lavoratori di contributi e tutele.

Il governo Meloni non ha fatto niente per contrastare questa tendenza, non ha mosso una paglia nemmeno sul fronte del controllo dei comportamenti opportunistici dei datori di lavoro.

Quanto agli sgravi per le assunzioni, è dimostrato che possono favorire un aumento di occupazione ma non del salario: di conseguenza a trarne vantaggio è solo la parte contrattuale più forte, che in Italia è quella delle imprese.

I sindacati spesso si sono accontentati di concessioni contrattuali sotto forma di welfare occupazionale: fringe benefit di vario tipo che sono sgravati fiscalmente e quindi pesano sul bilancio pubblico, ma lasciano a bocca asciutta chi ha un Contratto collettivo poco generoso e per niente aggiornato alla realtà dell’inflazione e della pandemia che hanno portato il carrello della spesa alle stelle e i salari alle stalle.

Il Governo rivendica i livelli record toccati dall’occupazione, senza dire che l’aumento occupazionale va di pari passo con un incremento della quota di posti a bassa retribuzione.

Negli ultimi anni il livello medio delle qualifiche dei nuovi entrati nel mercato del lavoro è salito, ma nonostante questo i salari di ingresso si sono nella migliore delle ipotesi bloccati se non addirittura peggiorati.

Per affrontare il problema della povertà lavorativa servirebbe:

1.     guardare alla dimensione familiare aumentando il numero di percettori di reddito all’interno del nucleo, promuovendo soprattutto l’occupazione femminile.

2.     aumentare strumenti per integrare i redditi dei lavoratori poveri: il cosiddetto in-work benefit (meccanismo di integrazione ai bassi redditi che aumenta l’attrattività del lavoro, rendendo meno conveniente l’inattività o peggio la combinazione tra sussidio e lavoro nero) , vigilando per evitare che si trasformi in un sussidio a imprese che non rispettano i minimi salariali

3.     Introdurre il salario minimo legale insieme ad altre misure

4.     concordare una soglia di dignità che dia forza in fase di contrattazione alla cifra di 9 euro lordi all’ora, è vero che è superiore al 60% della retribuzione mediana ma non eccessiva dopo anni di inflazione elevata.

5.     definire i confini contrattuali, a partire dall’individuazione dei contratti maggiormente rappresentativi, o di quelli più applicati, che non necessariamente sono quelli sottoscritti dai sindacati comparativamente più rappresentativi.

Il governo ha anche abolito il reddito di cittadinanza, sostituendolo con un assegno di inclusione per i “fragili” e uno strumento temporaneo e molto limitato per i presunti occupabili.

I redditi minimi in generale devono essere un sostegno per il contrasto alla povertà, separato dalle politiche attive a cui possono accompagnarsi.

E’ scontato che un lavoratore povero non ha certezze, non riesce a risparmiare, ha bassi consumi, questo comporta; bassi stimoli per le imprese a innovare, genera ricadute negative, sulla fertilità, perché induce le donne a rimandare la gravidanza e quindi avere un minor numero di figli o addirittura non riuscire più ad averne, al tempo stesso accentua le disuguaglianze di reddito e di tenore di vita.

La riforma sembra sia stata incentrata sulla retorica dell’occupabilità, senza tener conto dell’occupabilità reale.

La filosofia di fondo sembra essere quella di far rispettare un “dovere sociale di lavorare”.

Alfredo Magnifico

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