I dati Istat certificano che l’aumento del Pil nel primo trimestre del 2023, +1,9% anno su anno, +0,6% sull’ultimo trimestre 2023, deriva da una crescita dei consumi che in pochi si aspettavano e che da sola vale metà dell’incremento del nostro prodotto interno lordo.
Come è stato possibile, visto che l’aumento del dato inflattivo e il carovita si è mangiato il potere d’acquisto degli italiani e un bel pezzo del risparmio?
A quanto pare a salvarci è stato l’aumento dell’occupazione, soprattutto dei lavoratori stranieri, anche se l’Italia non riesce ad approfittare di queste risorse, anzi: blocca loro gli stipendi e nega le forme di welfare.
Nel 2022 il tasso di occupazione di coloro che non hanno la cittadinanza italiana ma lavorano nel nostro Paese è cresciuto molto più di quello degli “autoctoni”, era mediamente del 57,8% nel 2021 ed è arrivato alla fine del 2022 al 60,6%, mentre tra gli italiani è passato dal 58,3% al 60,6%.
I salari sono saliti molto meno rispetto all’inflazione, il mancato adeguamento dei salari già esistenti all’aumento dei prezzi, è stata compensata in parte con il ricorso a nuovi dipendenti di origine straniera pagati meno o spesso sottopagati.
Le aziende utilizzano lavoratori stranieri molto meno di un tempo, prima della crisi finanziaria del 2008-09 l’utilizzo di manodopera straniera questo era ben oltre il 68%, poi scesa di 9 punti durante il duro periodo tra il 2008-2013, per risalire di un 3% con la ripresa successiva.
Con il Covid sono stati i lavoratori stranieri a fare da vittime sacrificali: nel 2020, per la prima volta, tra loro la percentuale di quanti avevano un impiego era minore che tra gli italiani.
L’aumento del 2022 ha riportato i numeri a quelli del 2018-19, lontanissimi da quelli di 15-16 anni fa.
Nel Mezzogiorno la percentuale degli occupati stranieri è addirittura di oltre dieci punti inferiore (dal 61,1% è scesa al 50,3%) ed è persino più bassa del 2019 e del 2013, anno di crisi quando al Nord vi fu una ripresa occupazionale per tutti.
Dal 2002 gli stranieri sono aumentati del 2,83%, mentre gli italiani sono diminuiti del 3,73% senza contare che la maggior parte degli stranieri sono in età lavorativa, tra i 20 e i 50 anni.
In Europa il tasso di occupazione degli autoctoni è di più del 10% superiore a quello degli immigrati extracomunitari, le comunità straniere sono più fragili. vivono in aree povere, i giovani hanno meno possibilità di raggiungere livelli di istruzione superiore, sono spesso preda dell’economia grigia o lavorano in nero, in alcuni casi prevalgono culture tradizionali che vogliono la donna in casa invece che in fabbrica o in ufficio.
Tra gli stranieri l’andamento occupazionale dei laureati è identico a quello dei diplomati, la percentuale di quanti hanno un impiego dopo avere preso un titolo universitario è di ben quattordici punti più bassa che tra gli italiani con gli stessi studi.
Quando si è deciso di cambiare il Reddito di Cittadinanza a essere sfavoriti sono gli stati gli stranieri,infatti, Banca d’Italia ha calcolato che nel passaggio dal RdC-all’Assegno di Inclusione (AdI) solo il 32,5% di loro rimarrà potenzialmente beneficiario, contro il 59% degli italiani.
A cosa serve ridurre le forme di welfare e assistenza, già striminzite in confronto a quelle presenti in altri Paesi, nei confronti di chi non ha né una pensione né la cittadinanza italiana, ma destinato a rimanere in Italia perché vi è arrivato molto giovane?
Si farebbe bene, piuttosto che a restringere, ad investire nel capitale umano, visto che l’Italia ha smesso di crescere nelle sue risorse lavorative, negli ultimi anni le persone in età di lavoro sono diminuite di ben ottocentomila unità.
Si faccia due calcoli, compreso chi è ideologicamente contro l’immigrazione, la realtà è che non possiamo rinunciare né a nuovi arrivi né a occuparli di più e meglio, senza sfruttarli, sarebbe molto produttivo se si cominciasse, se non a dirlo apertamente, almeno ad agire di conseguenza.
Alfredo Magnifico