Con celerità e saccenza, la Direzione regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Molise ha risposto alla mia richiesta di ridiscutere l’attuale intervento di restauro della chiesa di Santa Maria delle Grazie di Riccia. Una lunga lettera, firmata dal Soprintendente architetto Carlo Birrozzi e dal progettista, architetto Fioravante Vignone, nella quale i due esperti del restauro forniscono le motivazioni alla base della scelta di intonacare le pareti laterali del Beato Stefano. In primis la “certezza certa” che le mura in pietra non fossero originariamente così come le vediamo oggi: “chiunque ritenga diversamente, ossia che il Principe Bartolomeo di Capua nel realizzare il prestigioso mausoleo della sua potente ed illustre famiglia e il maestro che lo progettò, in pieno Rinascimento, possano aver previsto pareti grezze e rustiche, prive di finitura, per gli esterni di tale eccellenza architettonica, è in evidente, grossolano errore. A livello popolare è largamente diffusa la convinzione che gli edifici antichi fossero privi di intonaci e conseguentemente che l’intonaco che rifinisce i fabbricati sia una forma di deturpamento degli stessi e una negazione della loro antichità” sostengono i due architetti.
Ma quali sono le fonti che riferiscono della presenza, nel passato, dell’intonaco su quelle pareti? Da cosa si è dedotto che le pietre che segnano il tempo della nostra comunità siano state decorate, stuccate, intonacate? Sono state rinvenute per caso tracce di antiche pitture che confermano questa certezza?
A mio modesto avviso, la motivazione vera dell’intonaco arriva invece parecchie righe dopo, tra una lezioncina di storia dell’arte e l’altra: “la ragione che ha indotto il progettista dell’intervento restaurativo di Santa Maria delle Grazie a prevedere l’intonacatura delle pareti esterne, ovviamente ad esclusione della facciata, è stata principalmente la necessità prioritaria di salvaguardare gli spazi interni dell’edificio ed in particolare l’integrità anche fisica dei monumenti funerari in esso contenuti”.
Ergo, ripristinare l’originarietà presunta dei luoghi, stigmatizzare “il residuo culturale di un popolaresco sentimento romantico che ancora contraddistingue tanta parte della popolazione” mi pare c’entri poco e niente con la vera motivazione dell’intonacatura, così come la spiegano i due architetti.
“Restaurare in questo caso equivale essenzialmente ad eliminare l’umidità e questo attraverso l’eliminazione delle cause di umidità che, nel nostro caso, sono molteplici e tra queste non secondaria quella che proviene dalle mura perimetrali” scrivono testualmente.
Immagino che la Soprintendenza abbia vagliato tutte le moderne tecnologie che il comparto edilizia ha messo a punto negli anni per contrastare questi fenomeni che sono, come gli stessi architetti riferiscono, alla base dell’intervento di intonacatura. Esistono mille modi per preservare le pareti dall’umidità, non ultimo quello di intervenire sulle fughe con trattamenti impermeabilizzanti e isolanti di cui anche i due architetti hanno notizia ma che vengono respinti – a priori – al mittente perché “non garantirebbero una protezione di lunga durata”.
Ingabbiare la chiesa nell’intonaco – di un grazioso giallo paglierino – di certo assicurerà “protezione di lunga durata”!
Cito ancora testualmente: “Da un punto di vista strettamente disciplinare inoltre la realizzazione dell’intonaco se risulterebbe (?) risolutiva rispetto alle infiltrazioni di acqua meteorica, consentirebbe di recuperare anche l’aspetto originario del monumento restituendo, conseguentemente, un’immagine, cioè una percezione complessiva, un’idea generale dello stesso e quindi della sua essenza culturale, più vicina al vero, evidenziando la qualità superiore dello stesso rispetto ad un contesto, quello del centro antico posto a monte e in adiacenza e non quello del Piano della Corte propriamente detto, che mostra caratteri più semplici e umili rispetto alle emergenze rinascimentali”.
Delle due l’una: l’intonaco c’era e occorre ripristinare un presunto stato originario del luoghi (come si evidenzia nelle prime due pagine di lettera senza portare nessun riferimento storico concreto) oppure quel manto servirà ad evitare, facilmente e senza troppi lavori, infiltrazioni d’umido?
Nonostante le lezioni di storia dell’arte contenute nella missiva ricevuta ieri – e che ho recepito con molto interesse – continuo a nutrire serie perplessità in merito a questi lavori di intonacatura.
Ho la sensazione che dietro l’intricata e non sempre lineare replica, ci sia un solo obiettivo: meglio coprire tutto, evitare in un sol colpo qualsiasi infiltrazione sottraendo un pezzo di storia alla nostra comunità e togliersi il pensiero.
Mi chiedo come mai, nelle vicinanze dello stesso edificio storico, altri lavori di intonacatura siano stati smantellati dalla stessa Soprintendenza per riportare lo stato originario dei luoghi nel vissuto quotidiano. Gli edifici intonacati per volere dei maestri architetti rinascimentali c’erano o no?
Non sono solo in questa battaglia: recepisco quotidianamente lo sconcerto di tanti concittadini che per la Soprintendenza rappresenteranno pure “il residuo culturale di un popolaresco sentimento romantico” ma, come me, sono “portatori sani” di interessi collettivi che mirano esclusivamente alla salvaguardia vera dei luoghi e delle identità.
Per me, per noi cittadini di Riccia, quell’intonaco non s’ha da fare. Né ora né mai. Andrò avanti, interessando nel caso tutti gli organismi competenti a qualsiasi livello.
Salvatore Ciocca
Consigliere regionale
“Per la Sinistra – Comunisti Italiani”