Regione/ La quota rosa, la ‘finta’ crisi e il gioco delle tre carte

Tra i motivi per i quali il Molise potrebbe nuovamente finire sulle cronache nazionali adesso figurerà anche la crisi istituzionale più veloce del mondo: detta così potrebbe anche sembrare motivo d’orgoglio, ma spiegheremo perché da gioire c’è poco o niente. Il Presidente della Giunta regionale, Donato Toma, ha tolto a tutti noi giornalisti il gusto di scrivere l’analisi politica, atteso che in questa iniziativa vi sia stato qualcosa di politico. Personalmente ero pronto a scrivere che alla fine la crisi non ci sarebbe stata, non perché dotato della classica sfera di cristallo, ma semplicemente perché di crisi politiche rientrate è lastricato tutto il percorso della politica molisana. Avrei citato due precedenti illustri (si fa per dire): uno alla Regione e l’altro alla Provincia di Campobasso. Ma motivi per scrivere ce ne sono comunque, eccome. Nella schiera dei contrari al governo Toma ci sono posizioni differenziate: gli oppositori ‘classici’, che sono soprattutto i Cinque Stelle e, con dei distinguo, gli esponenti del PD e poi Michele Iorio (che ci ha messo un po’ di tempo prima di decidere) e le due ‘teoricamente’ leghiste ( come posizione ideologica a prescindere dalle sigle e movimenti che si sono succeduti nel tempo) Filomena Calenda e Aida Romagnuolo che, unite nella protesta, hanno però avuto spesso comportamenti differenti.

Donato Toma
Filomena Calenda

Vediamo che è successo. Toma sapeva benissimo che le posizioni delle due consigliere e di Iorio erano personali e non di partito (anche perché il partito di Iorio è Iorio stesso) e sapeva ancora meglio che la Lega tra Calenda e Romagnuolo avrebbe sponsorizzato la prima, che peraltro da tempo era nel novero dell’attribuzione della delega in quota rosa, ancora prima della nomina in Giunta in favore di Marone. Allora il calcolo è stato elementare: sostituire Marone (che essendo esterno non vota) con Calenda, con la benedizione della Lega (il partito che perde l’assessore), lasciare fuori la Romagnuolo (che obiettivamente rispetto agli altri dà qualche fastidio in più perché solleva casi concreti e protesta in maniera anche eclatante) e isolare Michele Iorio, che per esperienza e visione politica dei tre è quello che può dare maggiore fastidio al governo regionale. Immaginiamo che avrà contattato la Lega (per i motivi prima citati) per averne la benedizione. Ma la Lega già aveva fatto capire di avere un’idea per la Calenda e alla fine un posto in Giunta è sempre meglio che una disquisizione sui nomi: Marone ha avuto la sua occasione, ma le logiche (e le trattative) di partito sono diverse rispetto alla sua permanenza in Giunta.

E’ tutto semplice perché è tutto privo di strategia e visione politica, ma un ragionamento a breve termine con delle cure utili alla bisogna; la politica molisana da alcuni anni è questa, niente affatto simile a quella del passato che, pure tra sconquassi e comportamenti tutt’altro che morali, comunque aveva una visione chiara e di lunga durata e comportamenti logici conseguenti. In questa storia tutto è riconducibile al gioco delle tre carte dove Toma è il mazziere (cioè il banco), che gestisce le operazioni, la Calenda la vincitrice già stabilita e gli altri gli ignari sconfitti. Del resto la quota rosa era stata stabilita da tempo e lo stesso Toma aveva annunciato di voler provvedere prima o poi e sul nome non vi erano dubbi.

Allora una domanda: se era tutto già stabilito in principio perché aspettare la mozione di sfiducia? Perché la Regione politicamente è gestita da un’oligarchia, che anche con numeri ‘risicati’ può fare quello che vuole e quando vuole. Niente di nuovo, avviene anche in alcune nazioni nel mondo, ma il paragone non darebbe comunque grande lustro al Molise, quindi non lo farò.

Stefano Manocchio

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