Premetto che fui alla Leopolda un convinto assertore che il Jobs Act era un’enorme boiata a discapito dei lavoratori, come sono convinto che, con l’avvento della seconda repubblica ogni legge emanata è stata una grazia per le classi ricche e una tortorata per le classi povere.
Fatte queste debite premesse mi viene spontaneo chiedere innanzitutto a me stesso e poi agli autorevoli promotori del referendum sul Jobs act che si celebrerà l’8 giugno prossimo, quando parlano del Jobs Act, riforma del lavoro varata dal governo Renzi nel 2014-2015, pensano solo al decreto legislativo n. 23/2015 sui licenziamenti e si riferiscono solo a questo, con l’intento di abrogarlo o tutto l’articolato? Inoltre una volta abolito cosa subentrerà?
Noto che nessuno parla degli altri sette decreti legislativi di cui quella riforma si compone; e nessuno chiede conto ai governi che dalla caduta di Renzi si sono succeduti, sia di sinistra che di destra, del fatto che alcuni capitoli assai importanti di quella riforma sono rimasti del tutto inattuati: abrogati di fatto, senza alcun dibattito, senza che un solo sindacato abbia manifestato il minimo dissenso, soprattutto, senza che il vuoto rimasto sia stato riempito da nessun altro progetto: in materia di politica del lavoro, ha trionfato a destra, sinistra e centro “l’inerzia”.
Nella legge 10 dicembre 2014 n. 183 (articolo 7, lettera g), vi era la delega al governo per l’istituzione di uno standard retributivo minimo applicabile a tutti i rapporti di lavoro subordinato, o di collaborazione autonoma continuativa, non coperti da un contratto collettivo nazionale stipulato dai sindacati maggiormente rappresentativi, questa delega non è stata attuata per l’opposizione molto ferma della Cisl, ma anche della Cgil, che oggi rivendica con vigore un intervento legislativo mirato a stabilire una paga oraria minima universale, cui è ora il governo di centro-destra a opporsi, un’autocritica, un chiarimento su questo punto da parte dei Sindacati non guasterebbe.
Il presidente Mattarella è intervenuto pesantemente sulle morti sul lavoro e ogni volta che si verifica un infortunio grave i media condannano, i sindacati protestano, le autorità promettono giri di vite nella disciplina antinfortunistica e rafforzamento delle attività ispettive.
In realtà, il primo passo per questo rafforzamento sarebbe costituito dalla riorganizzazione unitaria degli ispettori del lavoro, attualmente ripartiti in quattro organici distinti e tra loro scollegati: quello del ministero, quello dell’Inps, quello dell’ Inail e quello delle aziende sanitarie locali.
L’unificazione e riorganizzazione almeno dei primi tre in una struttura denominata Ispettorato nazionale del lavoro erano previste da uno dei decreti attuativi del Jobs Act, il n. 149 del 2015; e sarebbe stata indispensabile per ridare autorevolezza all’attività ispettiva, recuperando l’efficacia che non si misura sul numero delle ispezioni ma sulla programmazione intelligente dell’intervento degli ispettori là dove oggi esso è davvero indispensabile, ma a dieci anni di distanza quella norma non è mai stata attuata: hanno prevalso le resistenze interne degli apparati a ogni cambiamento organizzativo; e i tre corpi amministrativi sono rimasti separati sia sul piano istituzionale, sia su quello operativo.
Dopo la strage del 16 febbraio 2024 in un cantiere di Firenze, nel decreto legge n. 19/2024 è stato aggiunto un articolo 31 contenente norme per “l’efficientamento dell’Ispettorato nazionale del lavoro”.
Non solo non viene attuata la norma del 2015, anzi l’esatto contrario, nel comma 12 c’è la Beffa, accuratamente nascosto in fondo all’articolo, dopo undici commi irrilevanti, si prevede il “ripristino dei ruoli ispettivi dell’Inps e dell’Inail” come ruoli a sé stanti rispetto a quello degli ispettori ministeriali, in altre parole, l’abrogazione di quanto disposto per l’unificazione dei ruoli stessi e la riorganizzazione unitaria del servizio dal decreto legislativo del 2015.
Nessun cambiamento organizzativo, il solo vero scopo della norma è sancire ufficialmente il successo definitivo della resistenza sorda degli apparati a quanto era stato disposto dalla legge nove anni prima, nel silenzio tombale dei sindacati, che nulla hanno da ridire al riguardo.
Il “contratto di ricollocazione”, uno strumento per il reinserimento di chi perde il posto sperimentato con successo nel Nord Europa e previsto da ben due decreti legislativi attuativi del Jobs Act (il n. 22 e il n. 150 del 2025), che il nostro sistema delle politiche attive ha sempre rifiutato come un corpo estraneo.
Più grave è stata la soppressione dell’ Anpal, (Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro), avvenuta un anno fa nell’indifferenza totale di media, dell’opinione pubblica, dell’opposizione di centro-sinistra e delle confederazioni sindacali, dopo che la sua presidenza era stata affidata nel 2018 dal ministro del Lavoro Luigi Di Maio a un professore del Mississippi che pretendeva, durante la pandemia, di esercitare la funzione da remoto, dalla sua residenza statunitense.
La bocciatura referendaria del dicembre 2016 aveva affossato la riforma costituzionale promossa dal governo Renzi; ma la norma che istituiva l’Anpal era pur sempre stata preceduta da un accordo tra stato e regioni, convinti l’uno e le altre della necessità di un’agenzia centrale capace di svolgere le funzioni di coordinamento e, all’occorrenza, sostituzione in via sussidiaria delle amministrazioni regionali inadempienti.
La soppressione dell’Agenzia, sarebbe stata comprensibile se il governo avesse spiegato chi e come ne avrebbe svolto le funzioni; ma su questo tema non si è sentita una parola ne dai sindacati nè tantomeno dalle opposizioni.
Le politiche attive del lavoro vengono valorizzate a “Chiacchiere” senza “Concretezza”, la vicenda del Siisl, il Sistema informativo di inclusione sociale e lavorativa, e del monitoraggio della qualità dei servizi di formazione professionale.
L’anno scorso, il ministero del Lavoro annunciava con rulli di tamburi una vera e propria palingenesi che avrebbe dovuto determinarsi nella gestione dei servizi di collocamento in conseguenza dell’istituzione del Siisl ,poi è intervenuto il decreto legge n. 60/2024 a stabilire che il Siisl fosse potenziato dall’intelligenza artificiale per garantire il migliore incontro tra domanda e offerta di lavoro e il monitoraggio capillare dei servizi di formazione professionale, con rilevazione del tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi e conseguente attribuzione a ciascun centro di formazione di un punteggio di qualità.
La premier o la ministro del lavoro potrebbe spiegare perché il Siisl, che avrebbe dovuto essere operativo dall’inizio del 2024, a tutt’oggi non lo sia affatto: ad oggi nessun centro per l’impiego è in grado di avvalersene , quanto al monitoraggio capillare dell’efficacia dei servizi di formazione, che determinerebbe una svolta epocale nel funzionamento dei servizi per l’impiego e quindi del nostro mercato del lavoro, nessuno spiega perché sia stato fatto oggetto di un decreto legge nel 2024, considerato che quello stesso monitoraggio, attuato mediante l’incrocio dei dati di una anagrafe della formazione con tutti gli altri dati disponibili sui flussi di occupazione, era già compiutamente previsto negli articoli da 13 a 16 del decreto attuativo del Jobs Act n. 150/2015: norme, anche queste, che a dieci anni di distanza sono ancora totalmente inattuate.
Più che suonare tamburi, tromboni e pernacchie, per il buon funzionamento del mercato del lavoro non servono nuove leggi, ma l’applicazione di quelle già esistenti che sono rimaste per anni lettera morta.
Su questo terreno, non sulla produzione di nuove norme legislative, si misura la bontà dell’azione svolta dal governo o le proposte dei sindacati e dell’opposizione.
Alfredo Magnifico