Immigrati, a tavola i frutti del loro sfruttamento

Un’indagine della Coldiretti, diffusa in occasione della presentazione del progetto “Lavoro stagionale – dignità e legalità”, su base dei dati del Dossier Statistico Immigrazione 2019, rileva che 370 mila lavoratori provenienti da ben 155 paesi diversi hanno trovato regolarmente occupazione in agricoltura.

Più di un quarto del Made in Italy a tavola viene ottenuto da mani straniere, che hanno trovato regolarmente occupazione in agricoltura fornendo il 27% del totale delle giornate di lavoro necessarie al settore.

Nei campi italiani la presenza di occupati stranieri è diventato fenomeno strutturale, come dimostra la crescita della loro presenza anche alla guida delle imprese agricole con 17mila titolari di nazionalità diversa da quella italiana.

Nel carrello della spesa, al supermercato, uno ci mette le arance , le clementine calabresi, i pachino di Licata, tre o quattro pomodori tardivi di San Gervasio, patate a un euro al chilo, raccolte vicino San Nicola Varco dove la verdura è buona davvero, qualche kiwi di Rizziconi (anche se fuori stagione) e una bottiglia di vino d’Alcamo, dal colore paglierino. Uno dei primi vini siciliani ad ottenere nel 1972 il marchio Doc. Come i pachino e le angurie pugliesi, come le arance e le clementine. Si tratta di specialità tipicamente italiane, con un particolare, trascurato troppo spesso, se non fosse per gli stranieri, noi non ne berremmo e non ne mangeremmo neanche con la fantasia.

La comunità di lavoratori agricoli più presente in Italia è rumena con 107591 occupati, davanti a marocchini con 35013 e indiani con 34043, che precedono albanesi (32264), senegalesi (14165), polacchi (13134), tunisini (13106), bulgari (11261), macedoni (10428) e pakistani (10272).

Sono molti i “distretti agricoli” dove i lavoratori immigrati sono una componente bene integrata nel tessuto economico e sociale, come nel caso della raccolta delle fragole nel Veronese, della preparazione delle barbatelle in Friuli, delle mele in Trentino, della frutta in Emilia Romagna, dell’uva in Piemonte fino agli allevamenti da latte in Lombardia dove a svolgere l’attività di bergamini sono soprattutto gli indiani mentre i macedoni sono coinvolti principalmente nella pastorizia.

I lavoratori stranieri contribuiscono in modo strutturale e determinante all’economia agricola del Paese e rappresentano una componente indispensabile per garantire i primati del Made in Italy alimentare nel mondo su un territorio dove va assicurata la sicurezza sul lavoro e la legalità per combattere inquietanti fenomeni malavitosi che umiliano gli uomini e il proprio lavoro e gettano una ombra su un settore che ha scelto con decisione la strada dell’attenzione alla sicurezza alimentare e ambientale.

A tre anni dall’approvazione della legge sul caporalato, l’esperienza dimostra che la repressione da sola non basta ed è invece necessario agire sulle leve economiche che spingono o tollerano lo sfruttamento, dalla lotta alle pratiche commerciali sleali fino alle agevolazioni concesse dall’Unione Europea alle importazioni low cost da Paesi a rischio.

Occorre spezzare la catena dello sfruttamento che si alimenta dalle distorsioni lungo la filiera, dalla distribuzione all’industria, fino alle campagne, dove i prodotti agricoli, dal pomodoro alle arance, pagati sottocosto, pochi centesimi al chilo, spingono le imprese oneste a chiudere e a lasciare spazio all’illegalità.

Occorrerebbe agire su due fronti: affiancare le norme sul caporalato all’approvazione delle proposte di riforma dei reati alimentari e arrivare al più presto al recepimento della direttiva (UE) 2019/633 in materia di pratiche commerciali sleali del 17 aprile 2019 per ristabilire condizioni contrattuali più eque lungo la catena di distribuzione degli alimenti, con l’introduzione di elementi contrattuali e sanzionatori certi rispetto a prassi che finora hanno pesantemente penalizzato i produttori.

Dietro le etichette. Il marchio made in Italy, nasconde il lavoro di tante braccia (in tempo di raccolta) e di piedi (in tempo di vendemmia) di arabi, rumeni, algerini, tunisini e nigeriani. Cittadini stranieri che spesso non parlano neanche una parola della nostra lingua, ma che con il loro lavoro da 30 euro al giorno, permettono di esportare 206 mila tonnellate di pomodoro doppio concentrato (il 50 per cento della produzione totale dell’Unione Europea) pari a 240 milioni di euro. Tutti nelle casse di casa nostra.

Il merito va ai braccianti che vengono chiamati clandestini, di questi sono circa un milione i lavoratori irregolari, in agricoltura, e rappresentano un quarto dell’economia informale.

Alfredo Magnifico

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