Il confronto non è più sulla quantità ma sulla qualità di un’olivicoltura globalizzata

Bisogna guardare lontano se si vuole, con i nostri oli, essere i protagonisti di oggi e di domani del mercato. I nuovi concorrenti sono gli olivicoltori del mondo. Non partire da questa novità vuol dire far perdere opportunità agli oli italiani. Di fronte a una realtà piena di problemi come quella olivicola, con molti, o la gran parte di essi, causati dal silenzio di un mondo complesso e contraddittorio come quello dell’olio oltre che dal sonno delle istituzioni, c’è chi pensa di darti lezioni con la semplificazione. Per esempio quello di far credere, volendo dare una svolta all’olivicoltura italiana, che il vino e l’olio, attualmente, sono due prodotti che camminano l’uno a fianco all’altro e come tali da considerare. Non è così, visto che sono due realtà che, avendo fatto percorsi diversi, non sono per ora paragonabili o, meglio, affiancabili. Con l’editoriale che ha aperto l’ultimo numero di Teatro Naturale dell’altra settimana, Alberto Grimelli, ha spiegato una parte importante di questa diversità ed ha fatto bene a dare voce a due protagonisti dell’uno e dell’altro prodotto per rendere ancor più esplicito il suo pensiero.
Sperando di riuscire a far capire il mio punto di vista, che è quello del mondo dell’agricoltura contadina e dell’olivicoltura italiana con il suo primato di biodiversità, cioè di varietà autoctone, so che il vino e l’olio, due prodotti fondamentali della nostra agricoltura e, insieme con la pasta e il pane, i più rappresentativi della nostra cucina e della nostra tavola, hanno avuto percorsi differenti nelle varie fasi. Mi riferisco soprattutto al rapporto con il mercato e con il consumatore, con l’olio che ha dimostrato sul campo, nonostante i tanti passi avanti, di essere ancora ben distante dai traguardi raggiunti dal vino nella metà degli anni ’80 del secolo scorso.
Sono molti quelli che addebitano al metanolo (1986) la causa della grande svolta che ha aperto al vino italiano nuove importanti strade, ottenendo il consenso del consumatore, anche il più esigente. Personalmente ritengo che la grande svolta c’era già stata con i riconoscimenti (1980) delle prime Docg assegnate a Barolo, Brunello di Montalcino, Barbaresco e Vino Nobile di Montepulciano, con quest’ultimo che, per il suo periodo meno lungo degli altri d’invecchiamento, ha svolto bene il ruolo di cavia arrivando per primo sul mercato. Riconoscimenti che hanno aperto un dibattito sul primato della qualità, che la tragedia del metanolo ha solo avuto il merito di confermare e affermare. Questo per dire che il percorso della qualità, che ha portato il vino a far capire l’importanza dell’origine, cioè del suo rapporto con il territorio, e dello stesso vitigno, è stato abbastanza lungo. Diversità di origine e di varietà che hanno fatto parlare sempre meno di vino, e, sempre più di vini, ognuno dei quali testimone della propria realtà. Una realtà fatta di storia e di cultura, di ambienti, paesaggi, tradizioni come quelle espresse dalla tavola, che ogni vino ha saputo e continua a saper raccontare al consumatore, sulla spinta dei diversi profumi e differenti sapori.
Personalmente, grazie a un maestro come il prof. Garoglio e, poi, a un osservatorio privilegiato come l’Enoteca Italiana di Siena, e, grazie anche al tempo vissuto, ho avuto la fortuna di seguire quasi dall’inizio e, comunque, da vicino il percorso che ha trasformato il vino italiano, da semplice “bianco” e “rosso”, in centinaia di vini di grande successo, noti in ogni parte del mondo. Un processo per niente facile se si pensa agli ostacoli che la grande industria vinicola italiana, così attaccata alla quantità, poneva ogni giorno sul percorso dei riconoscimenti e delle affermazioni di questi vini. C’è da dire, anche, che la globalizzazione della vitivinicoltura è un fatto che viene da lontano, diversamente da quello dell’olivicoltura, che, solo di recente, ha superato i possenti confini del Mediterraneo, con una cultura del consumatore in forte movimento, ma che è ancora tutta da diffondere se si vuol dare ad esso la possibilità di leggere e capire i messaggi dell’olivo e dell’olio.
Una globalizzazione, comunque, che c’è e sta andando avanti con sempre nuovi paesi produttori di olio di prima spremitura o prima raccolta. Paesi che, con i loro oli, andranno ad occupare gli spazi alti del mercato, determinando di fatto non più un confronto tra olio di oliva e altri grassi di origine animale e vegetale, ma tra oli di qualità arricchiti di packaging e di promozione. Sarà, quindi, con gli oli prodotti dalla globalizzazione il prossimo vero confronto. Non cogliere questo aspetto fondamentale per il rilancio della nostra olivicoltura, vuol dire lasciare a questi oli gli spazi che i nostri possono benissimo occupare con il valore aggiunto della diversità e dell’origine che il territorio esprime, rendendo questo o quell’olio il suo testimone. Sentire parlare di quantità da illustri protagonisti del mondo dell’olio italiano e da rinomati e stimati esperti, e, sentir dire che è soprattutto in essa la soluzione dei problemi venuti alla luce con la terribile campagna di raccolta 2014, fa venire un brivido a chi sa che, oggi più di ieri, dentro il quadro della globalizzazione, è proprio l’olivicoltura italiana contadina la sola vincente. Aver presente questo quadro vuol dire costruire un piano olivicolo forte di una strategia di marketing, soprattutto nella parte comunicazione, capace di raccontare una realtà ricca di ambienti e paesaggi, donne e uomini capaci, storie e ricche tradizioni. Per non parlare, poi, della voglia che i nostri oli hanno di presentarsi con i propri caratteri e, così, confrontarsi e dialogare con quelli che hanno lo stesso interesse qual è quello di appagare, con la qualità, il gusto del consumatore, sapendo di dargli , con essa, anche cultura e, insieme, salute e benessere. Ecco, è la novità di doversi confrontare con gli oli di prima raccolta o prima spremitura ad offrire nuove grandi opportunità di successo all’olivicoltura italiana ed ai suoi mille oli. Si tratta, in pratica, di tornare a essere ancora una volta il punto di riferimento per il consumatore – oggi stanco e preoccupato del processo di omologazione in atto – dando una risposta esaustiva alla sua ricerca della qualità e della diversità, al suo bisogno di godere i profumi e i sapori che questo o quell’olio riesce ad esprimere con i colori dei suoi paesaggi.
Pasquale Di Lena

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