La Corte di Cassazione Sezione Lavoro con la sentenza, la n. 123, affronta l’annoso problema dello Stress sul lavoro, oltre a decidere il caso concreto portato alla sua attenzione, offre alcuni spunti interessanti per la generalità delle aziende, per non incappare in dispute legali che potrebbero concludersi con un risarcimento per danni biologico se tollera stress e conflitti in ufficio.
Per il risarcimento del danno biologico è sufficiente l’inerzia del datore di lavoro che non interviene per sanare un ambiente di lavoro tossico, non servono gesti e comportamenti ripetuti nel tempo.
In un ambiente di lavoro fonte di stress, a rimetterci non sono solo i lavoratori con un calo della produttività, un minor spirito collaborativo o una motivazione non all’altezza degli obiettivi richiesti dall’azienda, ma anche il datore di lavoro rischia conseguenze sul piano legale, per non aver provveduto a evitare che l’ufficio diventasse o rimanesse un luogo tossico per la salute.
Nel procedimento giudiziario che ha preceduto la citata sentenza, la Corte d’Appello aveva valutato i fatti emersi e, in particolare, la scelta di un direttore generale Asl che intendeva attuare un progetto di riorganizzazione della sede amministrativa centrale dell’ente.
La soluzione avrebbe portato all’eliminazione dell’ufficio legale interno alla struttura, questo aspetto fu la goccia che fa traboccare il vaso, portando un’avvocata in servizio presso l’Asl a fare causa.
Secondo la magistratura, la scelta di sopprimere l’ufficio legale interno, attuata dalla dirigenza dell’azienda sanitaria, appariva di natura organizzativa, non irragionevole e motivata sul piano economico-finanziario, ma da un’analisi più approfondita si evidenziava una marcata conflittualità nelle relazioni professionali del luogo di lavoro.
Per argomentare la sua condanna al risarcimento per danno biologico della lavoratrice, il giudice d’appello ha sottolineato il comportamento del direttore generale che, invece di provare a riportare ordine interno e serenità tra i colleghi in conflitto, anche adottando provvedimenti disciplinari, aveva contribuito, con la sua inerzia e negligenza, alla prosecuzione del clima tossico.
La corte d’appello ritenne l’uomo colpevole di straining,* per non essersi impegnato abbastanza nel ruolo di paciere, compiendo scelte equilibrate per l’organizzazione e il corretto svolgimento delle prestazioni di lavoro.
Con la sentenza 123/2025, la Sezione Lavoro della Cassazione ha confermato la pronuncia di secondo grado, cogliendo anche l’occasione per richiamare il suo costante orientamento giurisprudenziale (tra cui Cass. 15957/2024), che si fonda su quanto previsto nel Codice Civile.
Anche quando non si possa parlare di mobbing del datore di lavoro (contro cui ci si può opportunamente difendere), per mancanza della volontà di perseguitare la vittima con più azioni distinte, può però essere violato l’art. 2087 c.c. sulla tutela delle condizioni di lavoro. Secondo quest’ultimo:
L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, per cui il datore che consente il mantenersi di un ambiente nocivo, ostile e carico di provocazioni e scintille tra colleghi, rischia di essere condannato.
La Cassazione afferma che di responsabilità per danno biologico si parlerà anche nel caso in cui il capo non agisca in modo da ridurre gli effetti stressanti del luogo di lavoro.
Un ambiente psicologicamente tossico è, esso stesso, un fatto ingiusto e contro cui è possibile tutelarsi in tribunale, anche perché è la Costituzione, art. 32 a tutelare il diritto alla salute di tutti.
La sentenza n. 123 Cassazione Sezione Lavoro è interessante perché ricorda che lo straining* è una forma attenuata di mobbing, consistente anche nell’inerzia o nell’ insufficiente impegno a risolvere – in veste di datori di lavoro – una situazione conflittuale in ufficio.
Contro i danni alla salute è possibile tutelarsi in giudizio con una domanda di risarcimento, indicando la violazione dell’art. 2087 del Codice Civile, non è necessario un disegno persecutorio o comportamenti direttamente lesivi tipici del mobbing (e la relativa prova in tribunale), perché basta il non aver adottato misure adeguate per risolvere conflitti tra i propri dipendenti o per non peggiorare il clima aziendale.
Il dipendente che afferma di aver subito un peggioramento del suo stato di salute dovrà provare in giudizio i fatti e i comportamenti dannosi.
La sentenza introduce un importante cambiamento nella tutela dei lavoratori subordinati, chiarendo che il datore di lavoro può essere responsabile ai sensi del Codice Civile anche in assenza di vero e proprio mobbing a lui attribuibile.
Si tratta di una decisione che segna un passo avanti nella tutela della salute psicofisica dei dipendenti e nell’evoluzione della giurisprudenza sul lavoro, offrendo spunti di riflessione in tema di gestione del personale e di prevenzione del rischio stress lavoro-correlato.
Lo straining è una forma attenuata di mobbing: stress forzato e prolungato sul lavoro, anche con un solo atto lesivo, se reiterato negli effetti, a differenze del mobbing, manca l’intento persecutorio continuo e non serve una pluralità di atti, ma bastano effetti duraturi da un singolo evento; isolamento, dequalificazione, mancata assegnazione di compiti, silenzio organizzativo, esclusione da riunioni, ed è risarcibile come violazione dell’art. 2087 c.c., anche senza mobbing dimostrato, il lavoratore deve dimostrare gli effetti negativi sulla salute e l’inerzia del datore nel prevenire/gestire il disagio
Alfredo Magnifico