I salari bassi “bocciano” il reddito di cittadinanza

Quella del reddito di cittadinanza fa parte di false ricette per una malattia che contribuisce a collocare l’Italia in posizione di debolezza strutturale.
Un sindacato frantumato e gregario come quello attuale preferisce cercare scorciatoie, affidarsi a nuove leggi o a provvedimenti assistenziali come il reddito di cittadinanza piuttosto che prendere il toro per le corna affrontando una contrattazione che tenga conto della produttività-ricchezza prodotta e ridistribuire la stessa tra i lavoratori.
L’Istat, qualche giorno fa, ha fotografato la sperequazione tra le retribuzioni percepite al nord e al sud, 29mila euro medi mensili a Milano e 12mila a Vibo Valentia, per non parlare dello squilibrio retributivo tra donne e uomini che interessa l’intero paese.
Sul mancato sviluppo dell’Italia c’è un dato anomalo che incombe: i salari sono fermi da oltre un decennio, nonostante le ricette dei vari governi provate per rilanciare lavoro e salari ma risultate sempre inadeguate.
In Italia è aperta una questione salariale e non solo, con settori lavorativi non coperti dei quali la politica non parla e i sindacati hanno lasciato nel dimenticatoio, esistono tante ingiustizie da sanare.
A volte la cura proposta si è rivelata peggiore della malattia, come l’abolizione dei Vaucer, magari si cavalca la tigre come ha fatto Luigi Di Maio che, tra le prime iniziative come ministro del Lavoro, si è rivolto ai giovani fattorini,Rider, promettendo tutele e garanzie, questa è una delle contraddizioni da affrontare, ma si tratta di una quota minima e marginale del mercato del lavoro, i giornalieri dell’agricoltura, i lavoratori extra del turismo, i piccoli servizi richiesti nei lavori domestici, un mondo non regolamentato che con l’abolizione dei waucer è caduto nel nero, con buona pace dei puristi che avevano propugnato il referendum.
Questo è un mondo formato da un’occupazione transitoria e momentanea, renderla permanente con soluzioni contrattuali rigide rischia di diventare un boomerang, oggi tre quarti dei lavoratori italiani hanno un’occupazione dipendente per lo più di tipo tradizionale.
Secondo i dati Istat, la paga media lorda di un dipendente a tempo pieno, calcolata a prezzi del 2015, oggi è sostanzialmente uguale a quella di dieci anni fa, cioè poco meno di 2.500 euro mensili, per cui il problema principale, che si sta facendo gigantesco, sono salari e stipendi troppo bassi e, quel che è peggio, sono rimasti fermi da oltre un decennio.
Sarà colpa della lunga recessione, Eurostat ha calcolato fatta 100 la retribuzione reale media di un dipendente a tempo pieno nel 1995, nel 2006 l’indice aveva raggiunto il valore di 101,5, nel frattempo il reddito lordo prodotto dall’economia era passato da 100 a 118,3,quindi, il salario non seguiva la dinamica del prodotto nemmeno quando la crisi non era all’orizzonte.
La debole ripresa non ha invertito la tendenza, al contrario di quanto accaduto in altri paesi europei e negli Stati Uniti.
La “moderazione Salariale” è stata una scelta consapevole: nel 1993 per stroncare l’inflazione venne firmato l’accordo tra Cgil, Cisl, Uil, Confindustria e governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi, con il quale le retribuzioni annue potevano crescere solo in linea con l’inflazione, non quella effettiva bensì l’aumento programmato dal governo, le discrepanze sarebbero dovute essere compensate con i contratti di lavoro dei due anni successivi.
Legare il salario all’inflazione anziché alla produttività è stato un errore che ha fatto male sia ai salari sia alla produttività, con l’aggravante che sempre meno sono stati i contratti nazionali rinnovati e quasi per niente i contratti di secondo livello, contrariamente a quanto avvenuto negli Stati Uniti e Gran Bretagna dove prevale il modello contrattuale decentrato, su base aziendale, per cui i salari sono aumentati di più.
La Germania ha cambiato le relazioni industriali, un tempo centralizzate, questo ha contribuito in modo determinante alla sua migliore performance economica: ha reagito meglio alla recessione che è durata meno rispetto agli altri paesi soprattutto grazie alla flessibilità retributiva.
L’Italia deve recuperare produttività e retribuzioni per aumentare l’efficienza e sostenere una domanda interna rimasta sostanzialmente schiacciata, più profitti con bassi salari non rafforzano la crescita, anzi peggiorano le condizioni sociali, venendo a mancare quella “frusta salariale” che spinge gli imprenditori a investire e innovare.
Il dramma della politica economica: è che il riequilibrio delle finanze pubbliche è ignorato dal dibattito politico-sindacale.
La strada da imboccare è liberare spazio per una ripresa della contrattazione nelle imprese e nel territorio, con un passaggio importante di revisione del cuneo fiscale.
Il costo del lavoro in Italia è 46mila euro per ogni singolo addetto, imposte e contributi sociali si mangiano in media il 47,7 per cento, una percentuale che colloca l’Italia al terzo posto assoluto dopo Belgio e Germania, con 12 punti oltre la media dell’Ocse.
La flat tax non risolve il problema, gran parte delle retribuzioni si collocano su una fascia di reddito inferiore a quella che dovrebbe ricevere un beneficio dal taglio delle aliquote proposto dalla Lega.
Oggi il vero problema non è garantire il salario minimo, ma rivalutare quello medio, la discussione si dovrebbe incentrare se le scarse risorse pubbliche vanno impiegate in un modo o nell’altro.
Ridurre la forbice tra salario lordo e netto non è sufficiente se non si rivede il modello contrattuale, c’è il paradosso di una proliferazione di contratti “pirata” dice Tiziano Treu (su 800 esistenti solo 300 sono ufficiali) nello stesso tempo una rigidità schiaccia in basso le retribuzioni, gli accordi aziendali sono per lo più integrativi e restano all’interno della gabbia nazionale, nell’insieme coprono una minoranza di lavoratori.
Un aumento generalizzato della paga base può diventare controproducente e insufficiente per l’impatto macroeconomico e soprattutto non premia i lavoratori migliori.
La Banca d’Italia, in uno studio pubblicato nel dicembre scorso, conclude che “Un maggior ruolo della contrattazione decentrata nella definizione dei salari e dell’organizzazione del lavoro consentirebbe di favorire un miglior allineamento tra la crescita dei salari e quella della produttività e di allentare alcune rigidità della contrattazione nazionale è un tema che spetta ai sindacati, ma anche al governo. Gli incentivi alla contrattazione di secondo livello introdotti nella scorsa legislatura hanno avuto un qualche effetto, ma non hanno cambiato il modello.
Alfredo Magnifico

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