Ridare dignità alle donne attraverso politiche di Conciliazione e Welfare aziendale

Premesso che la conciliazione tra lavoro e vita privata è un fattore essenziale della qualità della vita nelle società moderne e ne rappresenta un obiettivo comune, ritenendo superato il considerare la conciliazione un problema che riguarda esclusivamente le donne bensì anche gli uomini e quindi la famiglia, è condivisibile parlare – afferma in una sua nota la Consigliera di Parità della Provincia di Campobasso Giuditta Lembo – di interventi rivolti alla conciliazione come interventi rivolti alla conciliazione dei tempi della famiglia evitando così di trascinare uno stereotipo culturale quale è quello di rilegare alla sola figura femminile la cura dei figli e degli anziani. Il 44,1% delle donne contro il 19,9% degli uomini ammette di aver rinunciato ad opportunità lavorative per essersi dovute occupare della famiglia e dei figli. La percentuale del carico di lavoro familiare svolto dalla donna (25-44 anni) sul totale del carico di lavoro familiare della coppia, in cui entrambi i componenti sono occupati, è pari al 67%. Più della metà delle donne occupate (54,1%) svolge oltre 60 ore settimanali di lavoro retribuito e/o familiare (46,6% gli uomini). Ciò dimostra come la partecipazione delle donne al mondo del lavoro sia molto legata ai carichi familiari. Anche i dati Istat 2017 su conciliazione tra lavoro e famiglia confermano la persistenza del problema della disparità nell’impegno di cura famigliare che penalizza la presenza delle donne nel mercato del lavoro.

In Italia la divisione dei ruoli di genere all’interno della coppia è infatti ancora prevalentemente tradizionale – sottolinea Giuditta Lembo- l’uomo continua in moltissimi casi ad avere il ruolo di breadwinner e il lavoro domestico e di cura pesa soprattutto sulle donne, indipendentemente dalla loro condizione occupazionale. La carenza di servizi di supporto nelle attività di cura unita alla distribuzione ineguale dei carichi di lavoro domestici all’interno della famiglia scoraggia le disoccupate alla ricerca attiva di un’occupazione, rende difficile la progressione di carriera fino ai casi “estremi” di fuoriuscita dal mercato del lavoro.

La “rigidità” del lavoro, in termini di orari, spazi e modalità organizzative, rappresenta uno degli ostacoli principali nell’ambito della conciliazione tra vita familiare e lavorativa e riguarda soprattutto le donne che, a causa della doppia presenza, spesso si trovano in situazioni di svantaggio e di discriminazione rispetto agli uomini. Un’organizzazione del lavoro troppo rigida comporta infatti una penalizzazione delle carriere delle donne che si vedono costrette a uscire dal mercato o a scegliere lavori meno qualificati o precari, pur di avere gradi di flessibilità che permettano la cura dei figli o degli anziani in famiglia. Ricordiamo -continua la Consigliera Lembo- che in Italia una madre su quattro, a distanza di due anni dalla nascita del figlio, non ha più un lavoro (dato stabile nel tempo), in Molise dopo il primo anno dalla nascita del figlio. In Italia aumentano le dimissioni volontarie per i genitori con figli fino a 3 anni d’età. Secondo i dati comunicati dall’Ispettorato nazionale del lavoro relativi all’anno 2016, le dimissioni sarebbero salite fino a 37.738 negli ultimi tempi.

Tra le donne che si sono licenziate, 24.618 hanno specificato motivazioni legate alla difficoltà di assistere il bambino e di conciliare la vita da mamma con il lavoro. Al Sud meno dimissioni del Nord ma probabilmente ciò è legato al problema della disoccupazione femminile. Inoltre le donne con impieghi meno remunerativi sono quelle più a rischio a lasciare il lavoro: tra operaie e impiegate, infatti, si arriva a 28.102 convalide, mentre quelle di dirigenti e quadri sono state solo 680. Il motivo? Pochi posti al nido, troppi costi e nonni lavoratori. Da Nord a Sud nonostante differenze anche sostanziali nel mondo del lavoro e nella rete familiare, per le donne ritornare al lavoro dopo la nascita di un figlio sta diventando sempre più problematico in tutte le regioni d’Italia, anche in quelle dove solitamente l’occupazione femminile è maggiore rispetto alla media nazionale.

Alla base restano i problemi da affrontare quando si prova a conciliare carriera e cura della famiglia nei primi anni di vita di un bambino, tra costi alti per i nidi, stipendi bassi e nonni, spesso ancora in servizio, che non possono badare ai nipoti ma più in generale : ritardi nell’attuazione di politiche per la conciliazione, necessità di mettere in campo maggiore welfare pubblico, ma anche di declinare il tema della responsabilità sociale di impresa affrontando la maternità non come una questione privata o come un costo da comprimere, ma come un valore sociale. L’assenza di forti vincoli contrattuali e l’introduzione di tempi e modalità di lavoro più “agili” possono costituire – afferma con convinzione Giuditta Lembo- un incentivo e una facilitazione, consentendo l’individuazione di un giusto equilibrio tra tempi di lavoro e tempi di vita, anche se, in mancanza di una cultura aziendale davvero conciliativa, spesso le donne occupate con contratti flessibili svolgono attività a bassa qualificazione o che comunque non richiedono particolari competenze.

Ciò è determinato dalla resistenza all’affermazione di un modello di flessibilità che si estenda anche verso le alte qualifiche, per le quali vige ancora un modello comportamentale “maschile”, incentrato sull’identificazione “tempo di vita = tempo di lavoro” e un superamento della “cultura di presenza” per la valutazione e il riconoscimento della professionalità. Si è visto però- conclude la Consigliera Lembo- che anche grazie all’introduzione delle nuove tecnologie, si sono affermate soluzioni organizzative che consentono di lavorare in tempi e spazi diversi dalla “sede abituale” e dal “normale orario di lavoro” nel rispetto degli obiettivi lavorativi da raggiungere ma anche delle esigenze di conciliazione vita-lavoro dei/delle dipendenti. Queste nuove modalità di flessibilità spazio temporale dell’attività lavorativa, anche note come “lavoro agile”, lasciano alle organizzazioni e alle persone maggiore autonomia nel definire le modalità di lavoro a fronte di una maggiore focalizzazione e responsabilizzazione sui risultati. Per andare in tale direzione occorre incentivare quindi il “welfare aziendale” per sostenere soprattutto le donne nel mercato del lavoro. In tal modo la promozione della flessibilità organizzativa può tradursi in maggiore e miglior bilanciamento tra tempi di vita e di lavoro e può consentire alle aziende, ai lavoratori e alle lavoratrici, di essere maggiormente produttivi e di concorrere così al buon andamento dell’impresa.

Una più equilibrata suddivisione tra tempi di vita e di lavoro per le donne e per gli uomini non può prescindere dal coinvolgimento attivo del mondo delle imprese, attraverso la realizzazione, anche da parte delle aziende, di azioni mirate ed incisive. Il welfare aziendale, per definizione, sostituisce alla “paga del/della lavoratore/trice” il “rapporto con la persona” della quale ne considera e asseconda necessità e desideri durante le varie fasi della sua vita. Quindi alla remunerazione economica possono aggiungersi flessibilità di orario di lavoro, servizi dentro e fuori l’azienda che semplificano l’esistenza e si traducono in maggior reddito reale, previdenza e sanità integrativa, aiuti ai figli e ai familiari e molto altro ancora, sempre a misura di donna e uomo. Sentire il lavoro come parte integrante della propria vita vuol dire dare il meglio di sé, a casa come tra i colleghi e le colleghe. Con tutti i vantaggi che ne derivano, per la persona, l’ambiente, i risultati.

Stimolare le PMI ad adottare politiche di welfare aziendale è importante poiché è dimostrato che i benefici possono potenzialmente ricadere sull’80% degli occupati in Italia. Un impatto sociale molto importante. La nuova programmazione regionale 2014-2020 può fare la differenza e innovare il contesto lavorativo offrendo interventi che vanno nella direzione della tutela dei diritti e della dignità delle persone attraverso un’azione di sistema come promossa anche dalla stessa Giuditta Lembo in qualità di Autorità per i diritti e le pari opportunità regionale figura posta a presidio dei cd. Principi orizzontali nell’ambito della programmazione regionale.

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