Politica/ I Cinque Stelle, il terzo mandato e il reddito di cittadinanza

di Stefano Manocchio

Sono, volenti (poco) o nolenti (tanto) il partito ‘mediatico’ del momento, atteso che si diventa famosi nell’etere e in rete più spesso nelle fasi calanti che in quelle crescenti. Così il Movimento Cinque Stelle, tra la scissione del gruppo che fa riferimento a Di Maio e la complicata relazione d’intenti, adesso poco chiara, tra Conte e il Governo nazionale, fino ai diktat di Grillo ha oramai ‘occupato’ parte delle cronache politiche quotidiane. Succede che il partito, nonostante sia passato dal primo al secondo posto in classifica nella rappresentanza parlamentare e con sondaggi che lo stimano non oltre il 10% nei consensi elettorali, mai come questa volta sia necessario alla coalizione di centro sinistra, che senza quella percentuale aggiuntiva difficilmente potrà coltivare sogni di vittoria alle urne il prossimo anno. Questo ragionamento probabilmente porterà all’incasso nella truppa pentastellata della nuova proroga del reddito di cittadinanza, che ‘vale’ 80 miliardi di euro spalmati in dieci anni. Non è poco, soprattutto considerando il mare (giustificato) di polemiche su una misura scritta male e gestita ancora peggio, che, insieme con il bonus 110% passerà alla storia come il provvedimento politico-legislativo forse più esposto alle irregolarità diffuse ovunque sul territorio.

Passiamo al diktat grillino sul terzo mandato elettorale, che pure i parlamentari stessi del partito in buona parte volevano in deroga, ma non è stato concesso. Va bene la dichiarazione di principio, l’assunto che la politica non deve diventare mestiere, perché poi si rischia di diventare mestieranti; ma è fuori dagli argomenti del momento e non considera come proprio l’esperienza, soprattutto in politica, sia la molla per far funzionare le cose e gestire la ‘res publica’. Proprio i pentastellati sono la dimostrazione di ciò, perché per ingenuità ed inesperienza hanno fatto scelte sbagliate, perso occasioni importanti e a volte sono usciti battuti pur avendo i numeri dalla propria parte. Ora immettere a decine i novelli amministratori e rimandare a casa quelli che stanno iniziando a capire il complesso meccanismo regolatorio della pubblica amministrazione è, a mio modo di vedere, un errore se non di principio ma nei fatti. E’ vero che in passato altri partiti (pochi in verità) avevano sventolato il vessillo del divieto al terzo mandato, ma poi le deroghe sono state talmente tante da farlo diventare poco meno di una semplice dichiarazione d’intenti, poi trascurata.

Non la penso alla Gino Bartali ( “gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare”): ma una seria riflessione, che porti anche alla revisione di alcuni principi ‘scritti’ prima di arrivare al Governo nazionale sarebbe, secondo me, opportuna e giusta.

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