Premetto che non appartengo al sindacato che ha promosso la manifestazione in circa cento piazze d’Italia, sono convinto che di quel sindacato il novanta per cento dei manifestanti neanche sa dell’esistenza, quello che ha mosso la gente a uscire dalle scuole o dai posti di lavoro è stato un urlo di solidarietà nei confronti dell’genocidio che si sta consumando a Gaza, un dissenso contro i governanti che istillano senso di odio e guerre.
Nei notiziari avere ristretto il giudizio del sentimento espresso dalle oltre 600mila persone su due o tre casi di violenza mi sembra riduttivo e ingeneroso per i sentimenti che quelle persone che sono scese in piazza hanno voluto testimoniare.
Gli organizzatori, inconsapevolmente, sono riusciti a risvegliare il torpore dell’indifferenza, portando nelle piazze un’esplosione di energia e resistenza; un fiume di giovani studenti e lavoratori, che hanno reso l’Italia da Nord a Sud; più vigile, più cosciente, meno disposta a lasciarsi narcotizzare dall’inerzia dei Politici e dei sindacati tradizionali.
In quelle piazze il messaggio è stato netto: senza pace non c’è giustizia e il sangue di Gaza non macchia soltanto le mani dei carnefici, ma anche gli occhi bassi di chi finge di non vedere ed autorizza la vendita di armi.
Quel popolo variegato si è fatto scudo umano contro il genocidio, è emerso un atto di accusa collettiva, un dito puntato contro le complicità e le omissioni che permettono di continuare la carneficina.
La società civile dovrebbe valorizzare quello slancio, coltivandolo e rendendolo spinta duratura, anche perché come diceva mio nonno: ”passata la festa gabbato lo santo” e allora evitare che la commozione evapori, la denuncia isolata si spenga e per questo, servono organizzazione e pressione politica.
Bisogna intrecciare recuperare unità di intenti, esprimere senza se e senza ma solidarietà con il popolo palestinese, rifiutare la guerra come strumento di dominio, mettere sotto pressione il governo con una richiesta chiara: far finire l’epoca dei don Abbondio, basta con gli equilibrismi, basta con i distinguo cesellati in filigrana.
La piazza con la manifestazione ha dato dimostrazione che si può scandire il tempo e a dettare l’agenda, il Palazzo, se vuole contare ancora qualcosa, deve uscire dal labirinto delle parole e compiere scelte reali.
Occorre un bagno di umiltà e ritornare al dialogo per: rinsaldare legami internazionali, far vibrare le reti, trasformare il rumore in un sisma capace di incrinare anche i muri più sordi del potere, per rendere la protesta ancora più grande, più autorevole, più inaggirabile, magari rimettendo in piedi quei servizi d’ordine che tanto utili erano a placare gli animi dei facinorosi ed evitare becere strumentalizzazioni da parte di chi vorrebbe restringere la libertà o di chi nei media evidenzia il gruppetto di scalmanati ed oscura la realtà della protesta.
Serve come nelle feste di paese, un fuoco d’ artificio che va in crescendo non basta il primo botto, così la protesta deve crescere e quei seicentomila devono diventare marea, risacca dopo risacca, fino a ché l’indifferenza non avrà più appigli a cui aggrapparsi.
Fermare un genocidio non è un atto di generosità né la carezza dei buoni sentimenti: è il minimo sindacale della dignità che come cittadini, lavoratori e esseri umani dobbiamo perseguire.
Alfredo Magnifico