Tornando a ritroso della mia storia sindacale,come in una favola si potrebbe iniziare con c’era una volta la contrattazione collettiva, c’era una volta la contingenza, c’era una volta la politica che governava il paniere del caro-vita, poi, mozzico dopo mozzico, il mostro ha ridotto salari, contrattazione e diritti dei lavoratori.
La carenza della contrattazione collettiva è spesso chiamata a rispondere dei bassi salari italiani.
Nei decenni scorsi, i redditi da lavoro, in Italia, hanno avuto un andamento stagnante o addirittura decrescente per i lavoratori più poveri, la contrattazione collettiva, che tra le sue funzioni principali dovrebbe avere la protezione dei livelli retributivi dei lavoratori, viene spesso indicata come debole o inefficace, non esiste un quadro chiaro di come siano andate effettivamente le cose.
I contratti collettivi dell’industria metalmeccanica, del commercio terziario e dell’industria edile complessivamente sono applicati a circa un terzo dei lavoratori dipendenti privati in Italia, ed esercitano un’influenza sulle dinamiche salariali che si estende al di là della loro copertura, spesso vengono presi come punto di riferimento per i negoziati di altri Contratti minori all’interno dei settori della manifattura, dei servizi e delle costruzioni.
L’andamento dei salari minimi, nel tempo, sono abbastanza simili tra contratti collettivi diversi, indice del grado di centralizzazione e coordinamento tra i vari settori produttivi diversi.
In una prima fase, dagli anni Ottanta fino a circa il 1992, i salari reali hanno avuto un andamento abbastanza piatto, fatta salva una crescita più marcata nei primi anni Novanta, le differenze nella crescita dei minimi tra lavoratori ad alta e bassa qualifica sono abbastanza limitate.
Dal 1992 al 1994 si assiste a una fase di riduzione del livello dei salari minimi reali, che coincide con un periodo transitorio di riforme nel sistema di contrattazione, con l’abolizione definitiva della scala mobile e la graduale entrata in vigore dell’accordo del 31 luglio 1992 “sulla politica dei redditi, la lotta all’inflazione e il costo del lavoro”, i minimi salariali sono adeguati all’inflazione con una frequenza mensile.
Dal 1995 fino al 2011, circa, vi è una fase di crescita nei salari minimi reali e di aumento delle diseguaglianze tra occupazioni ad alta e bassa qualifica.
La crescita delle diseguaglianze è relativamente più marcata nel primo decennio della fase, invece, quella dei salari minimi è generalmente più rapida nel primo decennio degli anni Duemila, grazie anche alla bassa inflazione.
La crescita dei salari minimi reali tende a rallentare visibilmente dal 2012, anche se le fasi di crescita negativa non sono mai persistenti nel tempo e la tendenza dei salari resta leggermente positiva.
Gli anni tra il 2015 e il 2021 coincidono con un massimo storico dei salari minimi reali per quasi tutti i livelli d’inquadramento presi in considerazione, su un arco di quattro decenni, l’aumento complessivo arriva al 30-45% nel caso delle occupazioni più qualificate, mentre è intorno al 5-15% nel caso delle posizioni lavorative a più basso salario.
L’ultima fase, che coincide con gli ultimi due anni della serie storica (2022-2023), è caratterizzata da una drammatica riduzione nei salari minimi reali, da attribuire alla forte crisi inflazionistica che ha caratterizzato il periodo; per alcune occupazioni, la riduzione dei minimi comporta la perdita di tutta o quasi tutta la crescita reale che si era cumulata negli ultimi decenni.
Le variabili macroeconomiche che hanno avuto un’influenza significativa sull’andamento dei minimi stabiliti dalla contrattazione collettiva possono essere identificate in; inflazione, disoccupazione e produttività settoriale.
L’inflazione ha un’influenza robusta e significativa sulla crescita dei minimi, l’adeguamento dei salari al costo della vita è una delle funzioni principali della contrattazione, che è stata prima attuata con gli automatismi della scala mobile, poi con un’intesa volta ad ancorare i salari all’inflazione programmata.
La disoccupazione ha un ruolo molto limitato nell’influenzare i salari minimi, la produttività settoriale, definita come valore aggiunto per ora lavorata, non sembra aver avuto un’influenza significativa.
La produttività, negli ultimi quattro decenni, è aumentata di circa il 50% nella manifattura, di circa il 30% nei servizi, mentre si è ridotta del 10% (fatto salvo un recupero nel 2022-2023 legato agli incentivi fiscali) nelle costruzioni, tuttavia, queste forti differenze non sembrano riflettersi in modo netto nell’andamento dei minimi salariali tra settori diversi.
A uno sguardo superficiale, l’andamento dei salari minimi sembrerebbe poco compatibile con la stagnazione dei redditi evidenziata nel dibattito sulla questione salariale italiana, occorre, però, tener conto di una specificità di questo fenomeno.
Il reddito annuale ha avuto un andamento negativo per i lavoratori più poveri negli ultimi decenni, con un conseguente aumento delle diseguaglianze, ma non è avvenuto lo stesso se prendiamo in considerazione i salari per giornata di lavoro a tempo pieno, che sono una buona approssimazione dei salari orari, in questo caso, le diseguaglianze sono aumentate principalmente nel corso degli anni Novanta, inoltre, l’andamento di questi salari è stato generalmente positivo o piatto in termini reali per tutti i lavoratori, una tendenza che si è interrotta solo con la crisi inflazionistica del 2022-2023.
Addirittura, a partire dagli anni Duemila si osserva una lieve riduzione nelle diseguaglianze dei salari per giornata di lavoro.
I contratti collettivi sembrano aver avuto un’influenza abbastanza importante sull’andamento dei salari orari, circa un terzo della crescita delle diseguaglianze dei salari per giornata di lavoro verificatasi nel corso degli anni Novanta può essere attribuita all’effetto dell’aumento delle diseguaglianze nei salari minimi tra livelli d’inquadramento diversi.
La contrattazione collettiva, in quegli anni, sembra aver recepito le istanze dei lavoratori a più alta qualifica, che chiedevano una maggiore valorizzazione delle loro competenze col superamento dei meccanismi di compressione dei salari (in particolare la scala mobile) che erano in vigore negli anni Ottanta.
Possiamo quindi concludere che la contrattazione collettiva è uno strumento che, per la gran parte degli ultimi quarant’anni, pur con qualche limite, sembra essere stata efficace nel tutelare il potere d’acquisto dei salari orari.
La contrattazione non riesce a garantire redditi maggiori se il calo della retribuzione è legato a orari di lavoro ridotti e discontinuità nelle carriere lavorative, questi meccanismi sembrano particolarmente rilevanti nel caso italiano, con fenomeni come la cassa integrazione, la disoccupazione e il part-time involontario.
Sarebbe importante monitorare le dinamiche salariali, così come fissate nei contratti collettivi, e come interagiscono col ciclo economico, perché gli interventi pubblici più appropriati potrebbero essere diversi in base al periodo storico che si attraversa.
Alfredo Magnifico