L’intervento/Salario Minimo “Il vero problema da risolvere”

Ho avuto già occasione di intervenire sui motivi a sostegno di una legge sul salario minimo, la Cisl,quando anch’io ne ero parte attiva, lo aveva sostenuto e auspicato, tutta l’Europa lo adotta fatta eccezione per Svezia, Finlandia, Danimarca, Austria, Cipro ed Italia, lì dove si applica lo si fa con risultati pienamente soddisfacenti, la contrarietà dei sindacati italiani sul salario minimo conferma la miope pochezza di chi li guida un po’ a tutti i livelli.

Le associazioni datoriali dichiarano che “fra industria alimentare, agricoltura, artigianato e logistica in Italia mancano all’appello qualche centinaia di migliaia di lavoratori addossando la colpa della non disponibilità al reddito di cittadinanza.

Il lavoro come fatica, come atti concreti che costano sudore, è ancora necessario anche se i soldi si fanno con le app. e le start up, ma al lavoro manca chi lo fa,manca la manovalanza.

Se l’espressione “mercato del lavoro” non fosse una finzione, anche un iscritto al primo anno di ragioneria potrebbe azzardare una soluzione semplicissima: in presenza di una domanda insoddisfatta di lavoro nelle imprese e di forza lavoro non occupata alle condizioni date, basterebbe aumentare la retribuzione offerta per aumentare la propensione dei non occupati ad accettare lavori che non richiedono, nella maggior parte dei casi, una particolare qualificazione professionale.

Se mancano i lavoratori e le retribuzioni non vengono aumentate, vuol dire che la legge della domanda e dell’offerta non vale, che il famoso mercato del lavoro non esiste, diventa una formula bugiarda per indicare qualcos’altro e che i salari seguono un’altra logica.

Dalla fine degli anni Settanta in poi con l’abolizione della scala mobile,si sono inventate formule magiche di distrazione di massa,e allora vai con: moderazione salariale,  sostegno all’offerta, politica deflazionistica, impegno per la competitività,  aiuto alle esportazioni e simili, formule che indicano un modo di pensare e di agire secondo cui bisogna aiutare le imprese comprimendo il costo del lavoro, giustificando che in questo modo si fanno gli interessi della classe lavoratrice in termini di garanzia dell’occupazione e della retribuzione, con questa giustificazione siamo arrivati a salari da Fame.

Sono decenni che i sindacati, parlo di CGIL-CISL-UIL sono entrati in questo meccanismo perverso ed hanno accettato questo modo di pensare come se fosse una verità definitiva e totale, tanto che non sono più capaci neanche di capire il problema, sottoscrivendo a ribasso Contratti Nazionali che avevano spessore e davano dignità,penso ai contratti del Terziario,del Turismo,delle Guardie Giurate.

Il risultato è che l’occupazione è garantita per tutti coloro che non la perdono e che le retribuzioni sono ferme, soprattutto per le fasce basse di reddito, e che i lavori meno retribuiti non sono ragionevolmente accettabili se non da chi, come gli immigrati, si trovano in condizioni particolari di bisogno.

La situazione tragica del momento attuale vede da una parte, la strategia della svalutazione del lavoro, integrata da politiche di sostegno ai redditi insufficienti che mettono a carico della collettività costi di cui si sgravano le imprese, non è più sostenibile quando i livelli retributivi sono tali da costituire un disincentivo all’occupazione.

I sindacati, CGIL-CISL-UIL, non sono più capaci di imporre una politica salariale di rivalutazione del lavoro perché non ne hanno la forza organizzativa, gli iscritti fatti con i servizi non danno forza contrattuale, e perché non hanno più neanche l’idea di cosa voglia dire essere autorità salariale, fra l’altro i contratti collettivi sono pieni di materie che sono oggetto di scambio con le controparti nell’interesse dei rappresentanti più che dei rappresentati,d’altronde dopo che si ottiene qualcosa per sé è più difficile rivendicare qualcosa per gli altri anche se sono quelli che dovresti rappresentare, come diceva il filosofo del mio paese:”quando sta bene Rocco,sta bene tutta la Rocca,.

In altri paesi, dove i sindacati hanno una maggior capacità di sostenere l’eventuale conflitto, la questione delle retribuzioni non è rimasta una materia interna ai rapporti privati collettivi ed hanno fissato per legge il salario minimo.

In diversi stati europei si è seguita una linea di sostegno all’offerta a vantaggio delle imprese e a carico delle casse pubbliche, si è permesso l’esistenza di rapporti di lavoro con retribuzioni inferiori alla soglia di povertà ma che davano accesso alle integrazioni di sostegno al reddito, per passare al sostegno alle retribuzioni fissando una paga oraria al di sotto della quale non si può scendere, con poche eccezioni esplicitamente previste.

A chi prevedeva ogni genere di disastro a seguito dell’intervento dello stato nella materia retributiva; disoccupazione, inflazione, perdita di competitività e crollo delle esportazioni, distruzione dell’autonomia contrattuale collettiva, è facile rispondere oggi che nulla di tutto questo si è verificato e che il valore del lavoro è stato almeno parzialmente ripristinato, permettendo a molte persone di poter vivere senza bisogno di dover passare da integrazioni e sussidi statali.

I sindacati italiani rifiutano questo ragionamento perché temono la concorrenza del salario minimo rispetto al salario contrattuale, da vecchio che non ha nulla da perdere ribadisco dicendo  che; i contratti collettivi che non reggono il minimo hanno un problema nel motore.

Ma la verità è che, per dare valore al lavoro, oggi le confederazioni storiche, non sono una soluzione, ma sono una parte del problema, che, prima o poi, dovrà essere risolto.

Chi si immagina di dare attuazione all’articolo 39, che servirebbe solo a cementare erga omnes quel potere rappresentativo che da anni non sono più interessate o meglio che non sono capaci di esercitare nell’interesse di chi sopravvive di lavoro.

Alfredo Magnifico

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