L’intervento/ La “retromarcia” della Cassazione sui licenziamenti danneggia imprese e lavoratori

La Corte di Cassazione compie una pericolosa inversione a U in tema di licenziamenti collettivi con la recente sentenza n. 15118 del 31 maggio scorso che ha stabilito il principio; “nel numero minimo di cinque licenziamenti, considerato come sufficiente ad integrare l’ipotesi del licenziamento collettivo, non possono includersi altre differenti ipotesi risolutive del rapporto di lavoro, ancorché riferibili all’iniziativa del datore di lavoro”.

La Corte ha infatti osservato che “l’espressione “intenda licenziare” di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 24 è una chiara manifestazione della volontà di recesso, pur necessariamente ancorata al fatto che i licenziamenti non possono essere intimati se non successivamente all’iter procedimentale di legge, mentre cosa ben diversa è l’espressione “deve dichiarare l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo” ai sensi della novellata L. n. 604 del 1966, art. 7, che è invece imposta al fine di intraprendere la nuova procedura di compensazione (o conciliazione) dinanzi alla DTL, e non può quindi ritenersi di per sé un licenziamento.

Le differenze tra licenziamento individuale e licenziamento collettivo sono molteplici e riguardano sia le motivazioni alla base del recesso quanto le procedure da seguire, quest’ultime, nel caso del licenziamento collettivo sono più articolate e complesse e prevedono, la comunicazione di avvio ai Sindacati e la successiva fase di esame congiunto (della durata massima di 75 giorni) che vede coinvolte le Organizzazioni Sindacali e gli attori istituzionali.

L’obbligo di attivare la procedura di licenziamento collettivo è regolamentato dall’art. 24 della L. 223/1991 che prevede che tale procedura si applichi “alle imprese che occupino più di quindici dipendenti, compresi i dirigenti, e che, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno cinque licenziamenti, nell’arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva o in più unità produttiva nell’ambito del territorio della stessa provincia”.

Per la Corte di Cassazione: le dimissioni rassegnate dal lavoratore a fronte di una modifica delle sue condizioni di lavoro operata dall’azienda, come pure le cessazioni del rapporto di lavoro frutto di un accordo tra lavoratore e datore di lavoro sollecitato da quest’ultimo, non possono computarsi ai fini della soglia che fa scattare l’obbligo di avviare una procedura di licenziamento collettivo.

Questa decisione si pone in netta discontinuità rispetto alla sentenza n. 15401 del 20 luglio 2020 con la quale aveva stabilito che “alla luce di una corretta interpretazione dell’art. 1, paragrafo 1, comma 1, lettera a) della Direttiva 98/59/CE del Consiglio del 20 luglio 1998 (concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi), rientra nella nozione di ‘licenziamento’ il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso, da cui consegua la cessazione del contratto di lavoro, anche su richiesta dal lavoratore medesimo (Corte di Giustizia UE 11 novembre 2015 in causa C-422/14, p.ti da 50 a 54)”.

La Suprema Corte aveva stabilito che “una tale interpretazione, conforme alla citata giurisprudenza della Corte di Giustizia, comporta il superamento della precedente” giurisprudenza secondo cui “nel numero minimo di cinque licenziamenti, ivi considerato come sufficiente ad integrare l’ipotesi del licenziamento collettivo, non potessero includere altre differenti ipotesi risolutive del rapporto di lavoro, ancorché riferibili all’iniziativa del datore di lavoro (Cass. 6 novembre 2001, n. 13714; Cass. 22 gennaio 2007, n. 1334) dovendosi intendere il termine licenziamento in senso tecnico, senza potere ad esso parificare qualunque altro tipo di cessazione del rapporto determinata (anche o soltanto) da una scelta del lavoratore, come nelle ipotesi di dimissioni, risoluzioni concordate, o prepensionamenti, anche ove tali forme di cessazione del rapporto fossero riconducibili alla medesima operazione di riduzione delle eccedenze della forza lavoro giustificante il ricorso ai licenziamenti”.

Come si vede, l’anno scorso la Corte Suprema aveva assunto una posizione del tutto opposta a quella ora espressa nella sentenza n. 15118/2021.

Sebbene l’ultimo orientamento è quello più logico e coerente con le norme richiamate, resta il fatto che l’oscillazione giurisprudenziale non giova alla certezza del diritto, cosa che penalizza sia i lavoratori (si pensi alle cause che sono state intentate sulla base di principio affermato dalla Corte Suprema che ora è venuto meno), sia i datori di lavoro.

Alfredo Magnifico

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