Con l’ordinanza n. 24245 del 31 agosto 2025, la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, si è pronunciata in materia di licenziamento e discriminazione di genere, affrontando il caso di una lavoratrice licenziata dal proprio datore di lavoro, mentre era impegnata in un percorso di procreazione medicalmente assistita (PMA).
La vicenda inizia nel 2017, quando una segretaria part-time, alle dipendenze di un medico di base, riceveva una lettera di licenziamento per presunto giustificato motivo oggettivo.
La lavoratrice aveva da tempo manifestato la volontà di diventare madre e, a partire dal 2016, aveva intrapreso insieme al coniuge un percorso di procreazione medicalmente assistita, giungendo alla fase più avanzata di fecondazione in vitro (FIVET).
Convinta che il licenziamento fosse discriminatorio, in quanto motivato dalla sua scelta di diventare madre, la donna impugnava la decisione del datore di lavoro dinanzi al Tribunale di Udine, che respingeva la domanda.
In appello la Corte d’Appello di Trieste ribaltò la decisione di primo grado, accertando la natura discriminatoria del licenziamento e dichiarando la nullità.
Il datore di lavoro proponeva allora ricorso per Cassazione, sostenendo che non vi fossero prove sufficienti a dimostrare la discriminazione, che la decisione fosse giustificata dall’esternalizzazione dei servizi a una cooperativa e che i giudici di merito fossero incorsi in vari vizi processuali.
Il cuore della controversia riguardava l’applicazione delle norme antidiscriminatorie, l’art. 40 del codice pari opportunità, che disciplina l’onere della prova nei giudizi di discriminazione. Secondo la giurisprudenza consolidata, il lavoratore deve offrire elementi indiziari “precisi e concordanti” che facessero presumere la discriminazione; spetta al datore di lavoro dimostrare che il licenziamento è fondato su ragioni oggettive e non discriminatorie.
Nel caso concreto, la Corte d’Appello aveva valorizzato alcuni indizi significativi:
· la tempistica del licenziamento, coincidente con la fase più delicata della FIVET;
· la conoscenza diretta, da parte del datore, delle condizioni della lavoratrice (essendo anche il suo medico di base);
· l’assenza di reali necessità organizzative, dal momento che l’esternalizzazione dei servizi alla cooperativa non aveva modificato la struttura produttiva;
· il fatto che la lavoratrice fosse l’unica dipendente a subire il licenziamento.
Questi elementi hanno reso plausibile la discriminazione, facendo scattare l’onere probatorio a carico del datore di lavoro, che non è riuscito a fornire una spiegazione alternativa convincente.
Secondo la Cassazione, un licenziamento motivato dalla scelta di una donna di accedere a tecniche di procreazione assistita è nullo, perché fondato su una condizione personale strettamente legata al sesso e alla maternità, il “rischio di gravidanza” non può giustificare l’espulsione dal posto di lavoro, pertanto, la dipendente ha diritto alla reintegrazione e al riconoscimento delle retribuzioni maturate durante l’assenza forzata, oltre ai contributi previdenziali.
Questo orientamento conferma che la tutela non si limita al periodo di gestazione accertata, ma si estende anche alla fase in cui la donna manifesta l’intenzione di diventare madre.
La sentenza sottolinea il rilievo dei principi di parità di genere, uguaglianza e libertà di autodeterminazione, richiamando implicitamente l’art. 37 Cost.
La maternità, in tutte le sue forme, non può costituire motivo di penalizzazione professionale. Di conseguenza, le scelte riproduttive individuali, anche quando richiedono procedure mediche complesse, devono essere protette contro ogni forma di discriminazione sul luogo di lavoro.
Alfredo Magnifico