Lo scompenso cardiaco è una delle cause maggiori di mortalità ed è responsabile del 10% di tutti i ricoveri ospedalieri. La prognosi è infausta, infatti il 50% dei pazienti con questa diagnosi muore entro 5 anni. L’incidenza è in costante aumento sia per l’invecchiamento della popolazione sia per il miglioramento delle cure mediche che prolungano il decorso clinico. Ad esempio nella cardiomiopatia ischemica, nonostante le tecniche di rivascolarizzazione (by pass aorto – coronarico, angioplastica percutanea) nel 25-30% la malattia prosegue verso lo scompenso cardiaco.
In pochi Centri al mondo, tra cui la Fondazione “Giovanni Paolo II” di Campobasso, è disponibile una nuova tecnica che potrebbe migliorare non poco le condizioni dei pazienti con un’insufficienza cardiaca grave, riducendo numero e durata dei ricoveri ospedalieri con un effetto positivo sulla qualità di vita dei malati. Si chiama barostim o “attivazione del baroriflesso” ed è già stata usata in pazienti con ipertensione resistente ai farmaci.
Questa tecnica, finora utilizzata su poche decine di casi in tutto il mondo, consiste nell’applicare uno stimolatore elettrico molto simile a un pacemaker cardiaco in prossimità del barocettore carotideo, un “interruttore” che regola l’attività del sistema simpatico e parasimpatico (o vagale). Il sistema simpatico è il nostro “acceleratore”: aumenta la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa, la forza di contrazione del cuore ed è più attivo durante le ore del giorno. L’attivazione del sistema vagale, più tipica delle ore notturne, fa invece da freno e ha effetti diametralmente opposti. Negli ipertesi resistenti ai farmaci e nei pazienti con scompenso cardiaco c’è uno squilibrio fra sistema simpatico e attivazione vagale a favore del primo, che di fatto è “sovraeccitato”. È come spingere l’acceleratore con un motore imballato: c’è un’insufficienza cardiaca ma l’organismo chiede al cuore di lavorare di più.
Ad oggi lo scompenso cardiaco si cura con farmaci che però hanno un’efficacia limitata, sia per l’entità sia per la durata della risposta del paziente. Da qui l’idea di posizionare uno stimolatore sul barocettore carotideo: quando quest’ultimo viene attivato, infatti, riduce l’attività simpatica aumentando quella vagale, riportando cioè equilibrio fra le due componenti che vanno in senso opposto. L’effetto che osservato nei primi pazienti è molto positivo, si mantiene stabile nel tempo, con una riduzione consistente della necessità di ricoveri e un netto miglioramento della qualità di vita. I candidati “giusti” sono malati con un’insufficienza cardiaca grave ma non estrema.
Il rischio di effetti indesiderati è basso, se la tecnica è eseguita correttamente. Peraltro l’attivazione del baroriflesso è già usata su casi di ipertensione resistente ai farmaci, per cui si tratta di utilizzare conoscenze già note su un’altra categoria di pazienti. Al momento per l’intervento servono circa 48 ore di ricovero, ma in futuro l’iter potrebbe diventare perfino più breve.
La metodica è ancora in fase sperimentale, ad oggi in Italia sono stati impiantati in tutto quattro pazienti con questa tecnologia di cui due presso il Dipartimento di Malattie Cardiovascolari della Fondazione “Giovanni Paolo II” di Campobasso, diretto dal dottor Carlo Maria De Filippo.
L’innovazione tecnologica al servizio del paziente è uno degli obbiettivi fondanti della Fondazione Giovanni Paolo II e dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Il paziente che ha il cuore gravemente malato trova presso il Dipartimento di Malattie Cardiovascolari un approccio integrato che mette ha disposizione del paziente tecnologie e terapie quali la stimolazione carotidea e le cellule staminali autologhe, che sono presenti in pochi centri al mondo. Nell’ambito della terapia dello scompenso il Dipartimento di Malattie Cardiovascolari collabora con il “Polo Apparato Cardiovascolare e Torace” del Policlinico “Gemelli, diretto dal Prof. Filippo Crea e con Il Dipartimento di Malattie Cardiovascolari dell’Università degli Studi di Padova diretto dal Prof. Gino Gerosa per le assistenze ventricolari e per il trapianto cardiaco.