Il prossimo 8 e 9 giugno si terranno i referendum sul lavoro e la cittadinanza. Raggiungere il quorum del cinquanta percento più uno dei votanti sarà molto arduo. Serve veramente un grande impegno per riuscirci. Il fatto che il Parlamento (e poi il governo) possa essere eletto con il 30 per cento dei voti e che 6 milioni di “italiani” residenti all’estero (una parte della quale non parla nemmeno la nostra lingua e nemmeno paga qui le tasse) rendano di fatto quel quorum molto più alto (quasi nessuno di loro andrà a votare) deve sollecitare una riflessione profonda.
Andiamo ai referendum mentre è del tutto evidente la crisi della democrazia nel nostro paese. I referendum dovrebbero essere accolti come un’occasione per contrastare questa crisi e riattivare un circuito di partecipazione democratica. Evidentemente c’è una parte importante della nostra classe dirigente che pensa che sia meglio governare senza democrazia. Cioè non governare: comandare.
Si spiega così questa insorgenza di una posizione diffusa che chiede di non andare a votare. L’appello al non voto arriva persino dai rappresentati delle istituzioni democratiche. È una incredibile contraddizione. Ma anche questo dimostra ancor di più la crisi della democrazia e le distanze tra le istituzioni, la democrazia e il popolo.
La democrazia rappresentativa è malata, e non serve fare molti esempi per avvalorare questa affermazione. Nel frattempo si rende vacua la democrazia diretta o la si impedisce, come è il caso delle barriere quasi insormontabili poste all’esercizio di un diritto costituzionale, come il referendum abrogativo. La legge attuativa del referendum deve essere cambiata: alzino pure il numero delle firme necessarie per indire un referendum, ma tolgano il quorum. Alle ultime elezioni europee hanno votato meno del 50 per cento degli italiani e quelle elezioni sono valide. Sia così anche per il referendum.
Nel merito i referendum propongono temi importanti: riportare a 5 anni (da 10) il periodo di residenza per ottenere la cittadinanza, impedire i licenziamenti illegittimi, arginare il precariato, bloccare la deregulation del sistema degli appalti. Sono referendum che servono per riportare i diritti dei lavoratori e delle persone al centro della discussione. Mai il lavoro è stato precario come oggi, tanto che ormai il mercato del lavoro si è trasformato in un mercato dei lavoratori. E non passa giorno che non vengano annunciate 2-3 morti sul lavoro. Persone che sono residenti nel nostro Paese – e che parlano meglio l’italiano di tanti cosiddetti “italiani” che risiedono all’estero – vivono da noi come dei pari e non possono avere la cittadinanza. Andare a votare per cambiare questo ordine delle cose è fondamentale.
La partecipazione è dunque un valore fondamentale. A differenza delle elezioni politiche dove eleggiamo i nostri rappresentanti, senza sapere poi cosa accadrà, nel caso del referendum esercitiamo un diritto molto concreto: decidiamo se una legge debba rimanere ancora in vigore o debba essere cancellata. Nel referendum abbiamo la concretezza della democrazia, il nostro voto conta veramente.
Chi critica i referendum sostiene che i referendum appartengono a un’altra stagione politica. Vero: i referendum vengono dalla stagione della grande politica. Dopo c’è stato solo il declino e poi il crollo della democrazia. Sovrastata da altre divinità: la guerra, lo sfruttamento, la diseguaglianza, il dominio della tecnica e del mercato. Questo voto ci permette di portare un granello di sabbia alla causa urgentissima della ricostruzione della dignità del lavoro.
Noi l’8 e il 9 giugno andremo a votare.
Mercoledì 21 maggio alle ore 17 a Casa del Popolo ( in via Gioberti a Campobasso) incontro con la Prof.ssa Laura Ronchetti docente Unimol e Sabrina Del Pozzo del Comitato Referendum 5 SI del Molise