#corpedelascunzulatavecchia/La frezza: istruzioni per la costruzione

Oggi parliamo di giocattoli, ma non dei giocattoli in vendita nei negozi. Pareremo dei giocattoli che da piccoli insieme ai miei amici costruivamo.

Sono nato, cresciuto e vissuto sempre in campagna, sempre nella stessa casa, gli amici di quando ero bambino sono ancora per la maggior parte miei vicini di casa, capita ogni tanto di ricordare.

Oggi voglio ricordare, insieme a loro, di quando, circa cinquanta anni fa,  costruivamo le fionde, per  noi LE FREZZE.

Il legno bramato da noi “frezzaioli” per la sua estrema resistenza e per la caratteristica forma “a bicchiere” che si riusciva a dare era “l’areneielle”. Questo il suo nome dialettale. Poi vi dirò qual è il suo nome in italiano. L’arenielle non lo trovavamo ovunque, spesso eravamo costretti ad inoltrarci ed inerpicarci sui dei sentieri di (quasi) montagna per trovare l’albero cui prelevare i mitici legni. Le forcine di “arenielle” erano ricercate da noi in quanto gli olmi che avevamo a portata di mano, non offrivano la forma tondeggiante, ma solo la forma a “V” che non era certo bella. L’arenielle, invece, presentava lungo i suoi rami delle biforcazioni che sapientemente piegate ed essiccate davano la forma a bicchiere delle forcine. Tutta un’altra cosa.

La ricerca delle forcine era da me fatta con i miei due Nicola amici vicini di casa. Li chiameremo, come sono, Nicola1 e Nicola2, numerazione legata alla loro età.

Nicola2 era uno “specialista specializzato” nella costruzione e nell’uso della “frezza”. Aveva una eccezionale capacità nella costruzione, ma soprattutto nell’utilizzo. Proprio come un cacciatore vero e proprio la mattina era capace di riempirsi le tasche di sassolini e di colpire le sue prede in maniera precisa senza tentennamenti. Io e l’altro Nicola seguivamo i suoi insegnamenti, ma non siamo mai riusciti, almeno io, a colpire nessun passerotto.

Ma passiamo alla fase costruttiva: Nicola1 sapeva dove poter trovare le forcine di “arenielle” per poter fare la frezza. Una mattina noi due partimmo ovviamente a piedi. Circa un’ora di cammino e giungemmo nei pressi  dell’albero tanto agognato. Stupii di fronte a tanti rami di “arienlle” che mi potevano dare la possibilità di fare una forcina a bicchiere tanto agognata dopo tutte le forcine di olmo fatte a “V” che poco davano l’idea di frezza di alto livello. Quella mattina affascinati a rapiti da tante forcine da poter raccogliere, non ci accorgemmo che ormai eravamo alle 14. Ce ne accorgemmo sentendo passare il treno che allora, come ora, con gli stessi tempi di percorrenza, partiva per Roma.

Ovviamente tornammo a casa e le prendemmo, allora si usava così. Io me la cavai abbastanza bene perché una cagnetta (alta venti centimetri) che aveva nonno iniziò ad abbaiare contro mio padre che voleva “educarmi” in maniera adeguata vista la paura che si erano beccati nel non vedendomi a casa per tanto tempo. I telefonini non esistevano forse era meglio, ma le prendemmo!

Una volta “conquistate” le forcine si passava alla fase di lavorazione.

 In  pratica si legavano i rami che sporgevano dal fusto centrale del legno e si faceva seccare il legno piano piano sul fornello a gas. Operazione che dovevamo necessariamente fare in orario lontano da quello canonico della preparazione del pranzo, sennò eveme aute cuppine, ma no de pasta.

Riscaldato il legno, quindi in pratica fatto essiccare, si scioglievano i rami e si tagliavano secondo le necessità. La forcina era pronta, dovevamo passare ad assemblare la frezza nei suoi componenti.

Altro metodo era quello di legare la forcina e farla essiccare per una quindicina di giorni all’interno della cappa del camino. Ma noi “lavoravamo” prevalentemente in estate e sicuramente non potevamo aspettare quindici giorni.

Dopo la forcina la parte essenziale erano le molle, anche queste auto costruite. Per fare le molle usavamo le camere d’aria, rigorosamente usate, delle biciclette. Il nostro maggiore “fornitore” era “Palombo” in via De Attellis., ma anche se più raramente, Mastropietro in Via Pietrunto.

 All’uscita di scuola passavamo da Palombo e chiedevamo se avessero delle camere d’aria da buttare, le mettevamo nelle cartelle, aute cuppine pecchè ze spurcavene le libre ……  una volta a casa si passava al taglio della camera d’aria. Operazione che richiedeva anche l’utilizzo di “strumenti scolastici” tipo la riga usata per educazione artistica. Vedendoci, in estate, rovistare nel mobile dove avevamo i libri di scuola le nostre mamme erano felici, mai avrebbero immaginato che ci serviva la riga per segnare le camere d’aria da tagliare.

 Segnate le camere d’aria bisognava tagliarle per avere (conquistare) le molle.  Io avevo un casa un paio di forbici che poco ne volevano sapere di tagliare, nonna e mamma le usavano prevalentemente per la cucina, di conseguenza le mie molle erano delle chiaviche tutte storte, sembravano delle penne de “la Molisana” nel senso di MALTAGLIATE. Lo specialista nel tagliare le molle era Nicola2 che avendo la mamma sarta aveva a portata di mano delle forbici sempre pronte, affilate e precise. Mai fu dato sapere se la mamma fosse contenta del fatto che Nicola2 utilizzasse le sue forbici da lavoro per le molle della frezza.  

Sulle molle facevamo anche degli studi particolari ed approfonditi. Avevamo il nostro CTS. Tutto uno studio per giungere alla conclusione (ovvia) che erano migliori quella da due centimetri di larghezza invece che 1,5 centimetri anche se alla fine, sempre Nicola2, arrivò a fare una frezza con quattro molle da due centimetri. In pratica un Kalashnikov con le molle e la forcina d’arenielle.

 Per completare la fionda c’era bisogno della “recchiella” che era la “caricatore”, la parte dove mettevamo il sasso che usavamo come munizione.

La “recchiela” doveva necessariamente essere di pelle per vere duttilità e resistenza che consentisse di lanciare lontano e con potenza. Certo non potevamo acquistare (tutta la frezza doveva essere denaro free) della pelle per fare le recchielle, quindi usavamo delle scarpe vecchie.

 La parte delle scarpe preferita era la lingua che sta di solito (ancora oggi) sotto le stringhe e poi passavamo ad utilizzare la parte della tomaia. Non esistevano i raccoglitori per vestiti e scarpe usate, e meno male sennò …

Ultima fase era quella di legare le molle vicino alla forcine ed alla recchiella. Lo facevamo utilizzando delle rondelle di camere d’aria a mò di elastico, infatti gli elastici erano merce rara e si utilizzavano con parsimonia. Per legare le molle vicino alla recchiella ci volevano due persone: una teneva con una mano la recchiella con l’altra la molla che era passata bìnel buco della recchiella. L’altro “costruttore” invece faceva girare l’elastico intorno alla molla per legare.

L’uso della frezza: avevamo bisogno di sassi per utilizzarla e quello non era un problema data l’allora abbondanza di strade brecciate, ma anche di cantieri edili. Se i sassi erano le cartucce, le tasche dei pantaloni erano le “cartucciere” ed avevamo le tasche talmente piene di pietre che un marò della San Marco in missione nella sua giberna ha sicuramente meno munizioni di quelle che avevamo noi in tasca. Ovviamente con somma gioia delle nostre mamme perché anche se usavamo “le panne de casa” sempre si sfondavano le tasche, visto che erano cucite per ospitare fazzoletti e non pietre.

Recuperato il tutto si partiva per la “caccia”, senza virgolette per Nicola2, che con mano ferma ed occhio preciso ci prendeva, io dovevo essermi iscritto alla Lipu, ma non lo sapevo ancora.

E per concludere ricordo che Nicola2, il Rambo delle frezze, ideò la frezza con i pallini.

Riuscì a cucire i alti della recchiella lasciano solo un buco tra le molle, caricava la frezza con pallini di piombo e riusciva ad avere un effetto fucile da caccia che se accoppiato alla doppia molla di due centimetri l’avrebbe potuta usare anche per la caccia al cinghiale.

Ne ho messo di spazio per scrivere, ma voglio concludere svelandovi una cosa: l’arenielle legno talmente duro da essere usato anche dai “caporali” dei misteri, è quel pezzo di legno con cui battono sul mistero per dare il tempo del “scannette all’erte”, in italiano si chiama FRASSINO. Ho dovuto interpellare l’ottimo Carmine, altro contradaiolo doc di lungo corso per farmelo dire. Alla prima occasione offro il caffè.

E questo erano una parte dei nostri giochi da bambini, se ne parlo così vuol dire che tempo ne è passato.

Nel dirvi che è stato meglio così, diversamente sarei morto giovane, vi saluto con affetto e stima dandovi uno statevi arrivederci caldo in contrapposizione a questa primavera solo sul calendario.

Franco di Biase

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