Sclerosi multipla: è il momento di ripensare l’approccio da seguire per una complicanza indotta da una terapia

Uno dei farmaci usati nella sclerosi multipla recidivante remittente, la forma più frequente, è il Natalizumab, un anticorpo monoclonale capace di diminuire la risposta immunitaria. In circa un caso su mille, però, i pazienti trattati con questa molecola, proprio a causa dell’abbassamento delle difese, sviluppano una grave infezione cerebrale, la leucoencefalopatia multifocale progressiva. Il trattamento più diffuso consiste nell’eliminare dal sangue il farmaco nel modo più veloce possibile, filtrandolo con la plasmaferesi.

Ma ora una ricerca condotta dall’I.R.C.C.S. Neuromed di Pozzilli (IS), in collaborazione con Università italiane e con gli Spedali Civili di Brescia, mostra come la plasmaferesi potrebbe non avere concreti effetti positivi. Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Neurology, ha preso in esame 49 articoli scientifici internazionali contenenti i dati di 193 pazienti colpiti da leucoencefalopatia multifocale progressiva. A questi sono stati aggiunti 34 pazienti italiani, i cui dati clinici sono stati raccolti e resi disponibili da un gruppo di studio nazionale costituitosi a questo proposito.

“Analizzando tutti i dati raccolti – dice il professor Diego Centonze, Responsabile dell’Unità Operativa di Neurologia I e dell’Unità di Neuroriabilitazione del Neuromed – abbiamo potuto avere un quadro molto chiaro di come si è evoluta la situazione dei pazienti. La leucoencefalopatia multifocale progressiva, causata dal virus JC, presente in larga parte della popolazione e che diventa pericoloso solo di fronte a situazioni di depressione immunitaria, è una patologia gravissima, frequentemente mortale. L’idea alla base del trattamento di plasmaferesi è di eliminare dal sangue farmaco, ripristinando rapidamente ’azione del sistema immunitario. Ma le nostre analisi hanno mostrato che questo intervento non si traduce in un reale beneficio del paziente, né dal punto di vista della mortalità, né da quello della disabilità futura. Al contrario, tale trattamento potrebbe peggiorare l’esito dell’infezione, favorendo una risposta infiammatoria esagerata nel cervello”.

In altri termini, la rapida eliminazione del natalizumab dal sangue attraverso la plasmaferesi non dà benefici maggiori di quelli che si ottengono dalla semplice sospensione del farmaco. “Considerando i costi e i rischi associati alla plasmaferesi – continua Centonze – dobbiamo valutare con molta cautela il suo impiego in quei pazienti trattati con natalizumab che sviluppano questa complicanza. Ciò a cui ora dobbiamo puntare è una maggiore personalizzazione della terapia. I pazienti dovranno essere vagliati attentamente, caso per caso, prima di decidere come agire”.

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