Movimento Cristiano dei Lavoratori: la sfida più impegnativa: nessuno possa dire che il lavoro vale zero

Ogni anno il MCL festeggia il primo maggio come momento di incontro per affermare che il lavoro – in tutte le sue declinazioni e con tutte le sue criticità – è un diritto, alta espressione dell’animo e dell’intelletto umanoin cui riconoscersi e far crescere la famiglia e la società intera.

Il Movimento Cristiano Lavoratori è stato invitato dalla Diocesi di Isernia a partecipare ad un momento di preghiera e riflessione spirituale in occasione del primo maggio presso la Parrocchia di San Giuseppe Lavoratore.

Siamo felici quest’anno di poter condividere il 1 maggio – dichiara il presidente MCL di Isernia Luigi Fantini – con S.E. Mons. Cibotti  e con la Pastorale Sociale e del Lavoro della  Diocesi di Isernia. Siamo un Movimento Ecclesiale di testimonianza evangelica al servizio della Chiesa locale. Vogliamo offrire il nostro umile contributo all’affermazione dei principi cristiani nella società.”

Nelle scorse settimane il MCL ha  partecipato anche alle celebrazioni della via crucis:   giovedì santo presso centro storico di Isernia, con partenza dalla chiesa di san Celestino e con arrivo in cattedrale. “Celebrazione sentita a cui hanno partecipato tutte le rappresentanze dell’associazionismo del mondo del lavoro e di tanti disoccupati e inoccupati” commenta Felice Fiacchino, Vice Presidente MCL Isernia “momento molto sentito da tutti”

Il messaggio dei vescovi italiani in vista del Primo Maggio, festa del Lavoro, non può non risentire dell’eco profonda della Settimana sociale di Cagliari” si legge nel  comunicato del Presidente nazionale MCL  Carlo Costalli “con tutto il suo umanesimo vissuto e sperimentato in quei giorni intensissimi. Con tutta la consapevolezza maturata sulla Grande Crisi del lavoro moderno, sempre più rarefatto e fonte di esclusione sociale piuttosto che di inclusione e integrazione. Con tutta la profondità d’analisi che oggi i cattolici italiani sanno mettere in campo.  Con tutta la capacità di relazione che è lo stigma del cattolicesimo del secondo millennio. Con tutta l’amorevolezza dello sguardo dei credenti secondo l’ispirazione di Francesco che invita a guardare diritto negli occhi la donna, l’uomo e il giovane che chiede il lavoro come forma di personalissima partecipazione alla con-creazione. E’ da questa prospettiva che deve ripartire l’azione di quanti, laici, associazioni e movimenti, si trovano per vocazione e missione storica ad esercitare la propria presenza cristiana nel mondo del lavoro. Con un occhio tutto speciale, dovuto alle drammatiche circostanze nelle quali versa l’occupazione in Italia, a chi bussa alle porte del mondo del lavoro e fa fatica a trovare una risposta degna del nostro umanesimo. Una risposta che non sia liquidatoria, che non si risolva in una scrollata di spalle o in una mera pratica consolatoria. Non è questo di cui hanno bisogno le lavoratrici, i lavoratori, i disoccupati, gli scartati. E anche quelli che i vescovi indicano come i “lavoratori poveri”, una massa ormai indistinta di giovani e adulti che vivono la drammatica condizione di avere un lavoro (troppo spesso precario, saltuario, mal pagato e non garantito), ma di non riuscire a tirarsi fuori dalla condizione di povertà. I vescovi ci invitano a muoverci su tre grandi piste: creare buon lavoro e rimuovere gli ostacoli per chi il lavoro lo promuove, avere istituzioni formative all’altezza delle sfide moderne, costruire una rete di protezione per i soggetti più deboli. Ma per fare di questi tre pilastri una grande politica pubblica, cioè quanto spetta ai cittadini nella loro particolare responsabilità, occorre un grande processo di purificazione e di coscientizzazione. Infatti, mai come in questo tempo, il lavoro è divenuto solo il corollario dei consumi e del profitto. Una sorta di fratello minore e sfortunato che deve rassegnarsi a un ruolo sussidiario e servile. Purificare il lavoro vuol dire, dunque, riscrivere l’agenda pubblica. E redigerla secondo una nuova ottica che, privilegiando il lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale, sappia indicare una  nuova mission al Paese. E’ superfluo sottolineare quanto una tale propensione richieda nuove classi dirigenti guidate da paradigmi alternativi. Primo fra tutti quello del lavoro come risultato di un patto sociale fra pari, in cui il cittadino lavoratore non è un numero, ma una persona. Ecco così riaffacciarsi la giustizia sociale come elemento discriminante per una società intimamente democratica. In secondo luogo, la coscientizzazione: deve partire dal bilanciamento profondo fra diritti e doveri. Questo è il campo di impegno proprio del laicato cattolico che dovrebbe essere capace di trasmettere la consapevolezza che il cambiamento è ancora possibile, pur dentro le regole di un riformismo democratico, per restituire valore al lavoro e ai lavoratori. Facendosi carico del futuro delle aziende come del sistema Paese nel suo complesso, considerando la produttività non un fattore accessorio e secondario ma una cartina di tornasole del lavoro buono, acquisendo la consapevolezza che il merito e il bisogno hanno entrambi necessità di trovare un’equa soddisfazione, contribuendo a costruire competenze in grado di far incontrare la domanda e l’offerta di lavoro in un mondo sempre più competitivo. Ma soprattutto coscientizzare ciascun lavoratore – uomo, donna, giovane – della sua personale dignità. Così che in un mondo dove il conflitto sociale, a ragione della moderna complessità, sembra aver lasciato il posto alla rassegnazione, nessuno possa dire che il lavoro valga zero. Sta qui la sfida più impegnativa per il laicato cattolico vocato al mondo del lavoro.

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