Rispunta il piano election day: politiche e comunali l’11 giugno. Lo spettro di primarie “nulle”

Renzi accelera ma teme lo stallo: se nessun candidato raggiunge il 50 per cento, il leader sarà eletto in assemblea con il rischio di un asse anti-Matteo

 GOFFREDO DE MARCHIS  www.repubblica.it La data delle primarie il 9 aprile serve a cogliere due obiettivi. Risolvere in fretta il congresso “perché la discussione è cominciata già da tre mesi e il Pd ha bisogno di una guida legittimata al più presto”, ha detto Matteo Renzi prima di partire per la California. Ma soprattutto permette di coltivare ancora il sogno delle elezioni anticipate a giugno. Per l’esattezza l’11 giugno, con un election day che comprende anche le amministrative. Un sogno o meglio una suggestione. “Una provocazione” la definisce un renziano. Eppure, nonostante l’evidenza dei fatti, Renzi vuole sempre “sognare”.

Per questo ieri, durante la riunione della commissione per il congresso, è rispuntata l’ipotesi del 9 aprile mentre è finita nell’ombra la data del 7 maggio, gradita da Michele Emiliano e Andrea Orlando, l’altro sfidante certo. Ma il 9 ha il pregio di tenere aperta la finestra elettorale di giugno. Più come messaggio all’intero sistema politico che come obiettivo davvero raggiungibile. Messaggio rivolto a tutti. Al governo di Paolo Gentiloni che proprio ad aprile è chiamato a varare una manovra correttiva sulla quale Renzi ha molti dubbi. E al Quirinale, che non gradisce il voto anticipato e semmai aspetta una correzione della legge elettorale. Ecco il punto: prima si elegge il segretario dem e prima gli altri attori della scena faranno i conti con lui.

Renzi ha studiato il calendario. Per votare l’11 giugno, le Camere andrebbero sciolte intorno al 18 aprile, ovvero il giorno dopo la Pasquetta. Possibile? È un salto carpiato triplo avvitato. Il nuovo segretario del Pd infatti entrerebbe in carica non il 9, ma il 13 o il 14 quando si celebrerà l’assemblea nazionale del Pd chiamata a ratificare l’esito dei gazebo. In soli cinque giorni, con il week end di Pasqua in mezzo, Paolo Gentiloni dovrebbe dimettersi e Sergio Mattarella firmare il decreto di scioglimento. Ci vorrebbero, dunque, numeri funambolici. Ma l’accelerazione c’è e ha una spiegazione di fondo. A Renzi importa poco che sia proprio lo scenario evocato dalla minoranza per motivare la scissione, ovvero che dietro lo scontro sulle date il vero traguardo sia chiudere l’esperienza dell’esecutivo Gentiloni prima del 2018.

Gia domani o sabato la direzione varerà il regolamento congressuale. La commissione lavora a rotta di collo sulla base delle vecchie regole. Il reggenteMatteo Orfini fa sapere che anche la parte preliminare, le cosiddette convenzioni, potrebbero subire uno sprint. Se i candidati sono soltanto tre, non serve eliminare, attraverso il pronunciamento degli iscritti, altri sfidanti per le primarie aperte. La corsa si può fare. E quando il Pd avrà un segretario legittimato dal voto di milioni (ipotetici) di italiani, sarà difficile per il sistema fare finta di niente. O sfruttare l’attuale debolezza di un leader sconfitto al referendum, dimessosi da Palazzo Chigi e dal suo partito.

L’altra soluzione preferita da Renzi, il 23 aprile, toglie di mezzo il voto a giugno, ma risponde alla necessità di avere presto il leader del Pd. E di tornare a dare le carte. Sempre che l’ex premier vinca, ovviamente. La candidatura di Orlando viene vissuta molto male dal cerchio ristrettissimo dei renziani in collegamento con la California. Esorcizzata con un pronostico infausto per il ministro della Giustizia: “Arriverà terzo. Gli conviene?” E condita con un avvertimento non troppo sibillino: “Se arriva terzo, lo sa che i posti in lista per le elezioni sono riservati solo ai primi due?”.

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