In Italia i problemi del lavoro hanno radici profonde ed hanno generato: declino produttivo del paese, forti divari di genere e territoriali, ritardo nei livelli di istruzione, bassa produttività, il risultato è stato la diffusione di lavoro precario e part time e una dinamica dei salari diminuiti in termini reali del 9% dal 2008 a oggi.
A dieci anni dall’introduzione del Jobs Act, la riforma che, a detta di Renzi, prometteva di aumentare l’occupazione e combattere la precarietà, rilanciare la crescita dell’economia, alla vigilia dei referendum è il momento di verificare i risultati che ha avuto e di fare il punto sulla situazione del lavoro in Italia.
Il Jobs Act ha portato a un indebolimento delle tutele e delle condizioni di lavoro per lavoratori e lavoratrici.
I contratti a termine e part time riguardano stabilmente ormai quasi il 30% degli occupati e colpiscono in modo particolare i giovani, le donne e i laureati: la precarietà è diventata un elemento strutturale del lavoro in Italia.
L’aumento del numero di occupati si accompagna alla più lenta crescita delle ore lavorate totali, data l’espansione del lavoro part time.
La domanda di lavoro si concentra nei settori dei servizi a bassa qualificazione, con un modesto livello tecnologico e bassi salari, in termini reali, i salari italiani hanno registrato una caduta senza precedenti.
Questi sviluppi hanno contribuito ad aggravare il declino dell’economia italiana, alimentando un circolo vizioso tra lavoro precario, bassi salari, bassa produttività e bassa crescita, portando a un crescente divario nei confronti delle principali economie europee.
Dal 2000 l’economia italiana ha registrato un lungo ristagno: oggi il Prodotto interno lordo (PIL) per abitante in termini reali è pari a meno di 31 mila euro l’anno (prezzi costanti del 2015), poco più alto di quello del 2000,nel 2000 la Germania aveva valori poco più alti dell’Italia, oggi ha un PIL per abitante più alto di un terzo.
La produttività che non cresce è anche il risultato della caduta degli investimenti, infatti, tra il 2010 e il 2019, prima della pandemia, gli investimenti pubblici e privati sono caduti in termini reali di 8 punti percentuali, mentre sono aumentati del 16% in Francia e del 20% in Germania.
La caduta degli investimenti è uno dei fattori che ha prodotto bassa crescita; dell’economia, della produttività e dell’occupazione e sono la drammatica conseguenza di scelte di politica aziendale fatte da una classe imprenditoriale miope e da una politica incapace di incentivare, anche quando mette a disposizione delle imprese risorse pubbliche.
Tra il 2020 e il 2023, gli azionisti delle società industriali censite da AST (Area Studi Mediobanca) si sono distribuiti ogni anno in media l’80% degli utili, lasciando il 20% a disposizione della gestione come contributo al fnanziamento di nuovi investimenti.
Nel 2023 il fatturato netto delle società industriali medie e grandi esaminate dall’AST (Area Studi Mediobanca) è stato di un terzo (34%) più alto di quello del 2019, anno prima dello shock pandemico.
Il valore aggiunto è risultato superiore nella stessa misura (33%), il peso del costo del lavoro, è calato di ben 12 punti percentuali, il peso dell’utile netto è aumentato di 14 punti percentuali nel 2023 rispetto al 2020 (quasi esattamente pari ai 12 punti in meno del lavoro).
Gli utili non vengono reinvestiti ma incassati dagli azionisti per diventare investimenti di altra natura, spesso finanziari senza nessuna utilità per l’economia reale.
Nei vent’anni tra il 2004 e il 2024, l’occupazione è cresciuta complessivamente del 17%, mentre la crescita più elevata si è avuta tra il 1995 e il 2008, con un aumento di tre milioni di occupati, mentre ristagna dal 2008 al 2024, con un incremento di un milione e 300 mila dipendenti, al contrario nello stesso periodo l’aumento di occupati in Germania è salita di 2 milioni, poi di 5 milioni in più, il divario tra i due paesi è andato allargandosi.
Il peso dei dipendenti a tempo indeterminato full-time è diminuito dal 78% del 2004 al 72% del 2024; nei primi cinque anni di applicazione del Jobs Act si è passati dal 71% del 2014 al 67,9% del 2019, continuando la caduta già avviata in precedenza; quasi il 30% degli occupati dipendenti in Italia è a termine o part time.
Se consideriamo l’andamento nel tempo, i dipendenti “standard” sono aumentati lievemente rispetto ai 12 milioni e 600 mila del 2004, hanno avuto un calo fino al 2020, e hanno registrato una ripresa nel dopo-pandemia per la necessità delle imprese di disporre di figure professionali la cui offerta è stata in parte scompaginata dalla recessione, con le politiche di espansione della spesa pubblica legata al PNRR, con l’aumento dell’età pensionabile.
Dal 2016, con il Jobs Act si è ampliata notevolmente il numero di contratti a tempo determinato e parasubordinati: apprendistato, stagionali, somministrazione ed intermittenti.
Nel 2024 sono stati 3 milioni e 700 mila i contratti a tempo determinato e 3 milioni e 100mila i contratti parasubordinati. Come termine di riferimento, ricordiamo che il totale delle persone dipendenti a tempo determinato è di 2 milioni e 800 mila.
Gran parte dei contratti è quindi per periodi inferiori all’anno, con un’elevatissima frammentazione delle posizioni lavorative.
Le dimensioni raggiunte dai contratti parasubordinati mostrano che le condizioni di lavoro precario, temporaneo e discontinuo si estendono anche nella direzione del lavoro apparentemente autonomo, aggravando la fragilità del mercato del lavoro italiano.
I nuovi contratti di assunzione a tempo indeterminato restano stabili, intorno al milione e 200 mila l’anno, con un balzo nel 2015, dovuto alla forte riduzione dei contributi sociali introdotta insieme al contratto a tutele crescenti, c’è un aumento nelle trasformazioni dei contratti a termine in tempo indeterminato (dopo 24 o 36 mesi di contratto), che passano dai 400 mila dei primi anni agli 870 mila del 2024, in lieve calo rispetto al 2023.
Con la crisi del 2008 si apre un divario tra occupati totali, prima in calo e poi in aumento e il numero di ore lavorate, che diminuisce in modo più grave, con un gap che resta costante fino al 2019.
Dei 18 milioni e 800 mila occupati dipendenti del 2024, 13 milioni e mezzo sono “standard”, a tempo indeterminato e a tempo pieno e 2 milioni e mezzo sono a tempo indeterminato e part time.
La precarizzazione del mercato del lavoro non ha interessato nella stessa misura le diverse aree del Paese, ma ha aggravato la disuguaglianza tra Nord e Sud: la quota di lavoratori dipendenti a tempo determinato nel 2024 raggiunge il 20% nel Mezzogiorno e il 12% nel Nord Italia. L’aumento è concentrato negli anni successivi al JobsAct, con una crescita forte soprattutto nel Sud del paese.
La percentuale di donne con contratti a tempo determinato è stata, storicamente, molto più elevata che per gli uomini; nel 2004 era oltre il 14% contro meno del 10% per gli uomini.
Negli anni successivi al Jobs Act si registra una forte crescita e una convergenza: nel 2019 la quota per entrambi è intorno al 17%. Nella ripresa dopo la pandemia, i divari tornano a essere rilevanti, con la quota per le donne in crescita ulteriore, prima del calo registrato negli ultimi anni.
Il numero di donne con lavori part time è salito da 1,6 milioni nel 2004 a 2,7 milioni nel 2019, per poi stabilizzarsi fino ai 2,6 milioni del 2024.
Per gran parte di questi lavoratori e lavoratrici il part time è involontario e risponde ad una scelta di flessibilità oraria ed organizzativa delle imprese piuttosto che ad una esigenza di conciliazione tra vita e lavoro da parte delle famiglie.
Per i lavoratori dai 15 ai 34 anni, la percentuale di contratti a tempo determinato, è balzata dal 19% del 2004 a oltre il 30% nel 2024, raggiungendo addirittura il 37% nel 2018, dopo l’introduzione del Jobs Act, meno rilevante è la condizione di precarietà per i lavoratori dipendenti nella classe di età centrale (35-49 anni), arrivata al 12% nel 2024, e nella classe dei più anziani (50-64 anni), pari al 7,4%.
Il numero di laureati con lavori precari e part time è aumentato di due volte e mezza in vent’anni. I contratti precari e part time non sono legati solo a lavori a bassa qualificazione per i meno istruiti, ma investono anche le persone più qualificate, neanche l’istruzione universitaria mette al riparo dalla diffusione di occupazioni precarie o part time; i più giovani sono i più esposti a queste condizioni.
Di fronte alla diffusione, in Italia, di lavori precari e part time che colpiscono in misura prevalente i giovani, l’emigrazione per molti di questi è diventata una strada obbligata.
Nel 2024 sono emigrate dall’Italia 191 mila persone, delle quali 156 mila cittadini italiani (+36,5% rispetto al 2023), diretti soprattutto verso Germania, Spagna, Regno Unito Svizzera e Francia, mentre i rimpatri sono stati 53 mila, con un saldo negativo di 103 mila persone; si tratta soprattutto di giovani e laureati, l’emigrazione tra i 18 e 34 anni è andata crescendo e tra il 2011 e il 2023 sono espatriati 550 mila giovani italiani, con un saldo negativo di 377 mila persone, la quota di laureati è aumentata ogni anno, arrivando nel 2023 al 43%.
Crescono,negli ultimi dieci anni le professioni intellettuali e scientifiche, i tecnici con titoli di studio e salari più alti, e quelle a basso contenuto di competenze; addetti al commercio, ai servizi e i lavoratori non qualificati, mentre crescono molto meno i dirigenti, gli impiegati, gli operai specializzati, gli addetti al montaggio.
La struttura occupazionale del paese ha registrato una maggior polarizzazione e crescita nei servizi a bassa qualificazione, molto meno in professioni qualificate a questo si aggiunge che un lavoro con elevata precarietà e diffuso part time tende a registrare una dinamica dei salari negativa, infatti tra il 2008 e il 2024 i salari reali medi in Italia sono diminuiti del 9%, mentre in Germania e Francia sono aumentati del 14% e del 5%.
Secondo OCSE l’Italia risulta il Paese che ha registrato la maggiore caduta dei salari reali nell’area OCSE, la caduta dei salari reali è l’effetto della struttura produttiva, dallo spostamento dell’occupazione verso servizi a bassa qualificazione e mancanza di investimenti in nuove attività economiche.
Tra il 2010 e il 2019 gli investimenti in Italia sono caduti del 8%, mentre sono aumentati del 16% in Francia e del 20% in Germania con una dinamica dei profitti che marcia nella direzione di una crescita costante a cui si accompagnano maggiori dividendi per gli azionisti.
Senza nuovi investimenti e attività economiche avanzate, con scarse innovazioni tecnologiche e organizzative, con dimensioni d’impresa sempre dominate da aziende piccole e piccolissime, con la crescente polarizzazione della composizione per professioni degli occupati, la produttività del lavoro ha avuto un lungo ristagno e gli spazi per gli aumenti salariali si sono ridotte. Le attività manifatturiere, hanno perso rilievo, le produzioni sono scivolate in basso nelle catene del valore globali, concentrandosi su segmenti a basso contenuto innovativo e con limitata domanda di lavoro qualificato; i salari, di conseguenza, sono stati spinti verso il basso.
Con la forte diffusione di contratti a tempo determinato e part time e con la moltiplicazione di centinaia di contratti di lavoro differenziati per categorie specifiche di lavoratori e lavoratrici, la tenuta dei salari si è indebolita, si è aggravata la polarizzazione salariale tra lavoratori stabili e precari, tra occupazioni più o meno qualificate, tra diverse tipologie di lavoratori e lavoratrici.
La copertura dei contratti di lavoro si è ridotta e si sono moltiplicati i ritardi nei rinnovi dei contratti di categoria, con perdite rilevanti in termini di adeguamenti salariali con anni di elevata inflazione.
In molti settori l’indebolimento del potere contrattuale del sindacato, per effetto della precarietà e frammentazione del lavoro, non è riuscito a evitare la caduta dei salari reali.
Un aspetto fondamentale della qualità dell’occupazione riguarda la salute e la sicurezza sul lavoro; i dati Inail per l’industria e i servizi mostrano che il numero totale di infortuni sul lavoro è progressivamente diminuito fino al 2015 quando, in coincidenza con l’introduzione del Jobs Act, si registra una battuta di arresto e gli infortuni restano a un livello costante, e addirittura aumentano dopo la fine della pandemia, per arrivare nel 2023 a 470 mila, con morti che nel 2023 hanno raggiunto i 1012 casi.
Se guardiamo alle imprese in cui avvengono le morti sul lavoro, troviamo che due infortuni mortali su tre avvengono nelle imprese con meno di 50 addetti: nel 2023, su 1012 infortuni mortali in industria e servizi, 363 casi sono stati nelle imprese con meno di 10 addetti, 281 casi in quelle tra 10 e 49 addetti.
Il lavoro interinale, l’apprendistato, il sub appalto, i lavoratori a tempo determinato registrano la maggiore esposizione al rischio rispetto ai dipendenti “standard, le cause sono molteplici: la difficoltà nell’acquisizione di una cultura della sicurezza dovuta alla discontinuità contrattuale e professionale; la maggiore propensione ad accettare condizioni peggiori per mantenere il posto di lavoro; la difficoltà che i sistemi di prevenzione territoriali hanno ad intervenire in contesti di elevata precarietà e frammentazione dei percorsi lavorativi.
I processi che hanno alimentato la precarizzazione del lavoro in Italia, dal Jobs Act, e all’impoverimento del sistema produttivo, sono alla radice dell’incapacità delle imprese di ridurre, a partire dal 2015, l’incidenza degli infortuni sul lavoro, proprio l’insufficiente sicurezza sul lavoro, con mille morti sul lavoro ogni anno, rappresenta il segnale più drammatico del degrado della qualità dell’occupazione in Italia.
I problemi del lavoro in Italia hanno radici profonde nel declino produttivo del paese, nei forti divari di genere e territoriali, nel ritardo nei livelli di istruzione, nella bassa produttività.
Il risultato è stata la diffusione di lavoro precario e part time, che colpisce in maggior misura i giovani, le donne, le persone qualificate, e una dinamica dei salari che li ha visti diminuire in termini reali del 9% dal 2008 a oggi.
Il Jobs Act, indebolendo le tutele del lavoro a tempo indeterminato e favorendo la diffusione di contratti precari e part time, è stato un elemento centrale per l’affermarsi di quello che – a dieci anni di distanza – possiamo individuare come un circolo vizioso tra lavoro precario, bassi salari, bassa produttività e bassa crescita. È questo uno dei meccanismi di fondo che ha alimentato il declino dell’economia italiana e l’aggravarsi delle distanze dai maggiori paesi europei.
Alfredo Magnifico