Intervento di Battista alla giornata dell’Emigrazione

Un saluto alle autorità, ai colleghi sindaci, a chi ha organizzato questa bella giornata dedicata ad un tema che a noi molisani è molto caro, giornata istituzionalizzata come è giusto e bello che sia per essere vicini a chi ha scelto o è stato costretto ad andar via ma che mantiene ancora vivo il legame con le proprie origini. Un saluto, ma soprattutto un sentito ringraziamento, per la massiccia presenza, voglio farlo a questa meravigliosa platea di ragazzi che oggi sono qui, insieme a noi, a parlare di emigrazione perché sono proprio loro la nuova frontiera di un fenomeno che fino a qualche decennio fa si considerava scomparso ma su cui oggi, soprattutto per colpa della crisi, sono stati riaccesi i riflettori: sul fenomeno in quanto tale, ma anche sugli effetti che produce e che ci toccano da vicino. La mancanza di lavoro e di prospettive spinge le nuove generazioni, soprattutto neo laureati, ma anche chi non possiede titoli accademici, a lasciare la nostra terra in cerca di stabilità, di lavoro, di quelle prospettive necessarie per crearsi una famiglia, una vita, un futuro, che dia loro la dignità necessaria per l’indipendenza. Il nostro Molise, come gran parte del resto d’Italia, continua ad esportare grandi capacità e raffinate intelligenze. Esportazione che impoverisce il tessuto locale e queste nostre aree che faranno ancora più fatica ad uscire dal decennale tunnel della recessione. La ricetta per scongiurare l’esodo esiste: provare ad investire nelle aree d’origine le proprie risorse per creare nuovo lavoro, per dare una prospettiva di crescita certa alla regione. Missione tutt’altro che facile perché oggi, e lo dico come sindaco del comune capoluogo e presidente della Provincia di Campobasso, nemmeno le istituzioni riescono a dare delle risposte concrete e capaci di spingere i ragazzi a restare, a costruire su quella terra che i loro stessi nonni hanno dovuto abbandonare per andare a cercare lavoro altrove. Giovani che dovrebbero restare per evitare che i piccoli centri scompaiano perché senza le nuove generazioni anche la democrazia rischia di scomparire e con essa una serie di servizi essenziali che fanno di un centro una comunità. Penso alle scuole, ai piccoli presidi medici, ai trasporti che diventano sempre più un miraggio lasciando nell’isolamento paesi che già soffrono di una mancanza di collegamento con le aree propulsive della regione. Davanti ad un simile panorama fuggire diventa quasi un obbligo. Un obbligo che richiede comunque forza e coraggio. Fuggono i nostri figli ma vanno via anche la gran parte dei ragazzi dei Paesi che affacciano sul Mediterraneo: la Spagna, il Portogallo, la Grecia. Una fuga verso il Nord, il nord Europa produttivo, che strizza l’occhio all’innovazione, ad un welfare cucito sulle esigenze della popolazione, che premia i sacrifici fatti sui banchi di scuola o che comunque non nega possibilità di crescita anche a chi non ha studiato. Nuova emigrazione che assume i connotati di una mobilità transnazionale: si va in un altro Paese dove si rimane per circa cinque anni. Nulla a che vedere dunque con l’emigrazione della metà del secolo scorso: l’emigrazione moderna è completamente diversa dalla vecchia emigrazione. “Vado a fare esperienza all’estero” dicono i giovani spesso mossi dall’esigenza di evadere, di conoscere nuove frontiere. Esperienza che ha il sapore, rispetto a sessanta anni fa, di minor sacrifico: nessuna valigia di cartone, nessun viaggio stipato in una stiva di nave, nessuna traversata in mare lunga settimane. Oggi ci si sposta in aereo o su velocissimi treni, e una volta arrivati a destinazione basta mandare una mail, fare una telefonata o inviare un whatsapp per far sapere tutto in tempo reale. Sono i benifici della tecnologia abbinata ad una globalizzazione, la stessa che fa sembrare il mondo più piccolo e anche i due poli molto più vicini. Certo la situazione potrebbe sembrare ancor meno drastica se l’Europa, meta privilegiata dai ragazzi, fosse come gli Stati Uniti d’America dove fare migliaia e migliaia di chilometri non significa cambiare continente, dove si parla ovunque la stessa lingua e l’emigrazione diventa mobilità interna. Parole queste sì, ma soprattutto concetti validi che pesano sugli effetti di una decisione che spesso si pone come scelta di vita dalla quale non sempre si può o si riesce a tornare indietro. La generazione nata con la morte della guerra fredda paga lo scotto di tanti percorsi sbagliati, ma dall’altro gode di un’elasticità mentale che riesce a trasformare un periodo di crisi in una possibilità, in una chance, per maturare, per crescere in un mondo che si muove veloce dove la stabilità è diventata quasi un tabù a favore di una flessibilità che rende più liberi e più agili. E allora anche l’emigrazione diventa un’occasione. Una preziosa occasione per guardare in faccia a nuove realtà per imparare e conoscere nuove realtà e per riportare in Italia un bagaglio di esperienza utile a cambiare questo Paese, in cui tutti crediamo ma in cui tutti possiamo fare ancora di più.

Il Sindaco della Città di Campobasso
Antonio Battista

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