SLP Cisl Poste: La speculazione non produce ricchezza. Il lavoro produce ricchezza

Sembra davvero assurdo che il management di Poste non si rendano conto del rischio che potrà determinare la dismissione delle quote azionarie statali, nonostante gli avvertimenti provenienti da più parti, non solo dal sindacato. Sembra sempre più chiaro che la strategia che sottende tale manovra sia dettata dal desiderio del sistema economico, non solo bancario, di potersi aggiudicare le fette di mercato e la clientela postale, controllando Poste Italiane. Ciò, d’altra parte, potrebbe permettere la penetrazione in Azienda di tanti investitori stranieri, da sempre interessati ad espandersi in Italia, espansione che sta assumendo i connotati di una vera e propria invasione.

In questi giorni tiene banco una notizia che suscita una certa curiosità proprio in quanto non convenzionale ed atipica, ovvero la scalata ostile della francese Vivendi al gruppo Fininvest.
Altra notizia, solo di ieri, è quella relativa alla chiusura della sede milanese di Twitter, l’azienda del web che rinuncia così all’unica sede di rappresentanza sul territorio italiano. Twitter è solo l’ultima di una lunga serie di aziende che ha deciso di lasciare la nostra nazione, considerata ormai poco redditizia, poco attraente dal punto di vista fiscale e infrastrutturale. L’eterno rincorrersi dei governi non ha certo garantito la stabilità a un Paese che dimostra di non aver mai avuto una chiara politica industriale. Un po’ come Poste Italiane, d’altronde.
Ma se Fininvest/ Mediaset è l’ennesima preda che rischia di finire in mani straniere, Palazzo Chigi ha assistito silente all’uscita dai confini della Fiat della famiglia Agnelli, ha guardato impotente l’addio di Pirelli e la conquista di Telecom da parte dei francesi di Vivendi. E dopo aver perso decine e decine di marchi nazionali, vere icone del made in Italy, ora ci si interroga su come salvare l’azienda della famiglia Berlusconi.
Per curiosità, oltre che per giusta informazione, vorremmo ripercorrere brevemente i punti fondamentali delle acquisizioni che si sono avvicendate in campo economico a danno della nostra povera Italia. Appartengono alla francese Nestlé ormai da tempo aziende come Perugina, Alemagna, Vismara, Olio Sasso, la Italgel con i marchi Valle degli Orti, Surgela, la Cremeria, Maxicono, Marefresco ed il settore bevande con Sanpellegrino, Levissima, Panna, Recoaro, Pejo, San Bernardo, la Claudia.
Sono in Bsn-Gervais-Danone marchi importanti dell’industria alimentare italiana come la Saiwa, la Galbani, Agnesi, Sangemini-Ferrarelle, Fabia, Boario.
Sono olandesi la Algida e la Sperlari insieme alle italiane Saila, Dietorelle, Dietor e Galatine.
È spagnola la Star, con le sue sottomarche Pummarò, Sogni d’oro, GranRagù, Orzo Bimbo, Risochef, Mellin.
È francese Eridania, la più grande società saccarifera italiana, è spagnola la Fiorucci, è americana la Ruffino. È russo il Gruppo Gancia. È turca la Pernigotti.
Sono giapponesi Conbipel, Sergio Tacchini, Belfe e Lario, Mandarina Duck, Coccinelle, Safilo, Ferrè, Lumberjack e Valentino S.p.A. aziende poi rivendute ma sempre ad aziende straniere.
È tedesca da tempo la Italcementi.
Birra Peroni è entrata a far parte del colosso sudafricano SABMiller plc, tra i più grandi produttori di birra al mondo.
Le tedesca Volkswagen ha assorbito la Ducati Motor e la Lamborghini.
Altre acquisizioni straniere riguardano elettronica, moda ed arredamento. Sono esteri i marchi Gucci, Bottega Veneta, Indesit, Pomellato, Fendi, Bulgari, Pozzi-Ginori, Ceramica Dolomite, Gruppo Marrazzi e Poltrona Frau.
Sono tutte aziende che noi continuiamo a percepire come marchi made in Italy, ma non sono più nostre.
Secondo l’analisi di Unimpresa, basata su dati della Banca d’Italia, è salita dal 44,3% al 51,1% la quota di possesso dei grandi gruppi del nostro Paese in mani estere ed è la prima volta che oltre la metà del capitale quotato sul listino di Milano finisce Oltreconfine. La guerra fra stati non si combatte più soltanto con le armi e gli eserciti, non più sul campo militare ma sul fronte economico, ben più insidioso e pericoloso. Il peso di una nazione non è dato dai suoi armamenti o dal numero dei soldati, ma dal potere economico delle sue aziende.
Lo stesso sistema bancario italiano non regge il confronto con le banche estere ed è francamente lontano il momento in cui gli istituti del nostro Paese potranno tornare a garantire liquidità e, quindi, investimenti, alle aziende italiane in crisi.
Certo, si può obiettare che i gruppi stranieri hanno speso circa 55 miliardi di euro per portare a casa i famosi marchi italiani, ma sono purtroppo soldi che sono andati a finire nelle casse di pochi investitori già proprietari, non portando alcun valore aggiunto al Paese, infatti, i colossi finanziari internazionali comprano più per fini speculativi che per investire, non producendo occupazione e senza distribuire ricchezza per tutti, ma solo vantaggi enormi per pochi speculatori, accumulando capitali che restano fermi, che non vengono reinvestiti e non producono la ricchezza indispensabile per far girare l’economia.

Antonio D’Alessandro

Segretario Interregione SLP- CISL Abruzzo – Molise

Commenti Facebook